Baidu, leader dei motori di ricerca in Cina, è innocente: nessuna violazione della Costituzione Usa. E qualcuno già vede un’avanzata del soft power di Pechino, perfino negli Usa. Oltre Muraglia nessuno riesce a rompere lo strapotere di Baidu. Nemmeno Google, che dal 2011, ha spostato la sede a Hong Kong. Baidu, il più importante e grande motore di ricerca su internet made in China, ha ottenuto un importante successo legale negli Stati Uniti. Baidu era stato accusato da otto americani di censurare i contenuti e violare diversi articoli della Costituzione americana, ma il giudice distrettuale di Manhattan ha rifiutato l’accusa, adducendo motivazioni di carattere burocratico. Gli accusatori non avrebbero presentato i documenti necessari.
Al di là della ragione del rigetto dell’accusa, si tratta di un successo rilevante per Baidu e, secondo molto osservatori, si tratterebbe dell’ennesima prova di forza del soft power cinese anche negli Stati Uniti. Gli analisti cinesi, invece, hanno semplicemente definito il procedimento "ridicolo".
La causa era stata presentata nel maggio 2011 da otto scrittori e produttori video di New York. Secondo gli accusatori, Baidu e Pechino avevano violato il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, oltre a varie leggi civili e sui diritti umani, e "cospirato per sopprimere le loro istanze politiche" dai risultati del motore di ricerca.
Secondo i ricorrenti, la censura su Baidu dei contenuti, che potevano essere facilmente trovati in Rete attraverso Google, Yahoo, Microsoft Bing e YouTube, avrebbe dunque provocato milioni di dollari di danni.
Oltre alle motivazioni più burocratiche, il giudice incaricato del caso aveva però precisato alcuni aspetti circa il contenzioso. Secondo quanto riportato dal Global Times, giornale cinese in inglese costola dell’ufficiale Quotidiano del Popolo, i giudici americani si sarebbero espressi come "non competenti" nel decidere se la Cina avesse davvero censurato i contenuti in oggetto. Tanto meno sarebbero stati in grado di indagare un soggetto privato cinese per di più in territorio americano.
Il giudice ha disposto altri 30 giorni affinché le accuse possano essere ripresentate con altre credenziali, dopodiché il caso sarà definitivamente chiuso.
Le reazioni cinesi non si sono fatte attendere. Kaiser Kuo, responsabile delle Relazioni internazionali di Baidu ha confermato la "vittoria" senza però rilasciare alcun commento. Alcuni esperti cinesi della Rete, invece, hanno bollato la causa intentata dagli scrittori come "ridicola".
"I provider di servizi Internet per sopravvivere devono rispettare le leggi e regolamenti locali. I risultati di ricerca del motore cinese Baidu sono organizzati secondo le leggi cinesi e non possono essere certo definiti da leggi nazionali degli Stati Uniti", ha affermato Li Yi, segretario generale della China Mobile Industry Alliance Internet. Pechino non ha voluto farne una questione formale, lasciando la parola al portavoce del ministero degli Esteri Jiang Yu che, respingendo la causa, ha sostenuto che "i giudici stranieri non sono competenti riguardo la legge nazionale della Cina, che è uno stato sovrano".
In Cina la vicenda è stata vista come l’ennesima prova della malafede americana in fatto di Internet.
Le accuse contro Baidu infatti sono state presentate nel 2011, poco dopo la conclusione della polemica tra Pechino e Google, che aveva costretto il colosso americano a trovare una sede a Hong Kong. All’epoca Google aveva infatto accusato la Cina di censurare i contenuti, minacciando una "liberazione" dei risultati censurati.
Pechino aveva risposto ricordando le leggi nazionali cinesi e sostenendo che la mossa di Big G dipendeva solo dall’esigua quota di mercato nella Rete cinese, dominato da Baidu. Dopo settimane di proteste, con tanto di sit-in di fronte agli uffici cinesi di Google, gli americani decisero di spostare le proprie attività online a Hong Kong.
[Scritto per Lettera43; foto credits: bloomberg.com]