Nascosta tra le foreste indiane del Tamil Nadu sorge Auroville, la città dell’Aurora: un po’ luna park new age, un po’ esperimento (riuscito) per l’Unità Umana. Dal 1968, su 500 ettari un tempo aridi e ora a pieno titolo parte della foresta tropicale dell’India meridionale, una comunità di 2500 persone sperimenta pratiche di convivenza inedite, in attesa di raggiungere una «massa critica» che possa contagiare il resto del mondo fuori da Auroville. Cioè noi.«Auroville non appartiene a nessuno in particolare. Auroville appartiene all’umanità intera. Ma, per vivere ad Auroville, occorre essere servitori volontari della coscienza divina».
Mirra Alfassa, meglio nota come la Madre, il 28 febbraio del 1968 all’età di novant’anni pronuncia il primo dei quattro punti che formano la Carta di Auroville, la Città dell’Aurora. La Madre, che mai ci avrebbe messo piede in tutta la sua vita, la inaugura con un discorso via radio.
Sim City, il videogioco di strategia urbana, sarebbe uscito per Electronic Arts solo 21 anni dopo, dando ai possessori di Commodore 64 l’opportunità di immaginare e creare una città virtuale sulla quale perdere una quantità variabile di ore giocando alla Creazione.
La Madre, in un certo senso videogamer ante litteram, nel pieno della terza età e dopo oltre quarant’anni passati a Pondicherry – oggi ex protettorato francese, India meridionale – alla presenza fisica (fino al 1970) e in seguito spirituale di Sri Aurobindo, immaginò e supervisionò la nascita di una città sviluppata attorno a un albero di banyan «visualizzato» a decine di chilometri dalla stanza austera dell’ashram intitolato al Santo Aurobindo.
Una città-laboratorio, un brodo primordiale dove «coltivare» volontari disposti a partecipare all’esperimento dell’Unità Umana, teorizzato nella pratica yogica di Sri Aurobindo. Una comunità che potesse vivere insieme superando le etnie, la religione e il sistema capitalista, sviluppando pratiche di condivisione economica, culturale e sociale che fossero da esempio al resto del mondo e che un giorno, raggiunta una «massa critica», possano contaminare chi sta fuori dal laboratorio. Cioè noi.
Nel mondo a 64 bit di Sim City il progetto si sarebbe arenato a pochi giorni dalla creazione della prima, fondamentale, centrale a carbone. Auroville invece, contro ogni aspettativa realistica o videoludica che sia, nel 2016 è un esperimento ancora incompiuto ma decisamente vivo e, soprattutto, vegeto.
Attorno al banyan sopravvissuto alla deforestazione e alla siccità – scovato da un manipolo di uomini e donne di buona volontà, nonché scoppiati sessantottini – nel 1968 la Madre, utilizzando fondi di fedeli vicini all’Aurobindo Ashram, acquistò 500 ettari di terreno inaridito e improduttivo. Dopo una miracolosa opera di riforestazione, la città di Auroville si estende oggi su una pianta «a costellazione» abitata da 2500 persone di 47 nazionalità diverse e rappresenta una delle realtà più malinterpretate dall’universo freak-new age.
Svoltando verso l’entroterra dalla East Coast Road (Ecr) che collega Chennai a Pondicherry, si entra in quello che sembra essere un parcogiochi dell’equosolidale, una bolla di felicità e rispetto della natura dove strade insensatamente a scia di cometa conducono in quartieri dai nomi, come dire, enormemente evocativi della «vibra» generale: c’è Shanti, Sincerity, Inspiration, Aspiration e tutto un prontuario di nomi francesi, sanscriti o tamil che farebbero la gioia di una casa editrice specializzata in manuali di autoconsapevolezza.
Tutto è verdissimo, tutto e pulitissimo, tutto assomiglia a una Svizzera a impatto zero scaraventata in mezzo alla campagna ipertropicale del Tamil Nadu, abitata dall’intero casting de Il pianeta verde. C’è la solar kitchen, la mensa di Auroville (parzialmente fotovoltaica) che ogni giorno serve pasti completi rigorosamente veg e bio per due lire; c’è il Matrimandir (Tempio della madre, in hindi), una specie di tempio a forma di palla da golf dorata, dove è possibile meditare all’interno di una camera illuminata dalla luce riflessa da un cristallo posizionato al centro della struttura; c’è il Visitor Centre, con le boutique di artigianato, i caffè etno-freak e le bacheche che pubblicizzano corsi di massaggio ayurvedico, pranayama, meditazione trascendentale, musica d’insieme, fruttarianesimo applicato, crudismo coll’asta.
Ecco, questo è quanto capii io di Auroville la prima volta che la visitai, nel 2012, in tre giorni di enorme disprezzo per il genere umano e per l’ennesima baracconata hippie buona per attirare migliaia di giovani e meno giovani in cerca di una temporanea spiritualità prêt-à-porter.
Oggi, dopo essere tornato più volte ad Auroville ed aver conosciuto una quantità rispettabile di aurovilliani – residenti ufficiali di Auroville, ora ci arriviamo… – posso dire di non averci capito assolutamente nulla. E l’assurdità di un posto come Auroville merita, perlomeno, lo sforzo dell’analisi.
«Pensavamo Auroville fosse un ashram e l’abbiamo sempre evitata, fino a quando non abbiamo capito l’ampiezza del progetto». Marco, 63 anni, è accomodato nella veranda della casa che ha costruito coi propri soldi una decina di anni prima, protetta dalla fitta vegetazione tropicale di Auroville. Torinese, quarant’anni passati a viaggiare per l’Asia occupandosi di antiquariato, assieme a Liliana si è trasferito ad Auroville «più di vent’anni fa». È uno dei due abbonati al cartaceo di Internazionale in tutta l’India: l’altro non lo conosce di persona ma delle volte, quando il postino sbaglia le consegne, si scrivono.
È lui a spiegarmi meglio il concetto di «laboratorio» prefigurato dalla Madre: un posto «protetto» dal mondo esterno dove poter sperimentare modelli di convivenza e sviluppo altrimenti impossibili. «Auroville è un ambiente protetto perché abbiamo bisogno di essere protetti. È una realtà totalmente sperimentale dove esiste la libertà anche di fare errori, che ci permettono di trovare la via giusta».
Non parliamo solo dell’impalpabile, della comunanza dei popoli, della pace nel mondo e dell’umanità unita in una spiritualità libera dal ritualismo religioso. Ma anche, e soprattutto, di cose pratiche. «Gli esperti di riforestazione di Auroville lavorano come consulenti per il governo indiano e hanno progetti attivi in Africa, ad Haiti». La gestione delle risorse idriche – che ad Auroville ha raggiunto il grado di completa autosufficienza – le architetture ecosostenibili, le tecnologie per l’energia rinnovabile, gli esperimenti sulla biodiversità delle colture di Auroville sono oggetto di studio accademico in tutto il mondo.
Il tutto, in un contesto legislativo, esecutivo ed economico unico.
Auroville è gestita da una fondazione, la Auroville Foundation, in virtù di una legge apposita varata dal parlamento indiano. La fondazione dipende dal ministero delle risorse umane e dello sviluppo indiano, che garantisce un grado di autonomia totale, fungendo quindi da «protettore» dello spirito originario della città: un luogo e una comunità «al servizio della Verità, oltre le costrizioni sociali, politiche e religiose».
Esiste poi il Fondo centrale, una grande «cassa comune» controllata dal Funds and Assets Management Committee (Famc), il «consiglio d’amministrazione» di Auroville dove siedono rappresentanti dei vari comitati della comunità (commerciale, agricolo, abitativo…). Il Fondo viene rimpinguato grazie a donazioni esterne (il governo indiano, l’Onu, diversi governi occidentali, fondazioni e donazioni individuali, per un totale di tre quarti del fabbisogno, stimato intorno ai 5 milioni di dollari l’anno) e alla raccolta dei contributi maturati dalle attività produttive di Auroville. Cioè, ad Auroville si lavora, si aprono aziende, si pagano stipendi, si commercia con l’esterno e si generano profitti. Sul netto dei ricavi, il contribuente aurovilliano dovrebbe consegnare al Fondo una quota pari al 33 per cento. «Dovrebbe», poiché ad Auroville non ci sono leggi e non ci sono multe: tutto viene fatto – o dovrebbe venir fatto – secondo coscienza, escluso il penale.
In assenza di ispettori o di un sistema di polizia, il rispetto della coscienza collettiva che dovrebbe regolare la convivenza all’interno di Auroville è affidato alla conoscenza collettiva: chi fa il furbo, chi tradisce lo spirito comunitario, grazie alla trasparenza decisionale e di bilancio di Auroville – che ogni settimana pubblica una gazzetta interna, il News and Notes, aggiornando la popolazione sulla gestione pubblica della cittadina – risponde delle proprie scelte davanti ai concittadini, i cosiddetti aurovilliani.
Per diventare aurovilliano occorre risiedere almeno un anno continuativo all’interno di Auroville, sostenendosi coi propri mezzi economici e lavorando all’interno della comunità. Da cameriere a contadino, da bagnino a muratore, per un anno si convive col resto degli aurovilliani e, soprattutto, si prova sulla propria pelle cosa significa vivere 365 giorni nella campagna subtropicale del Tamil Nadu: una campagna dorata dove le temperature raggiungono facilmente i 45 gradi d’estate, dove piove a dirotto per due mesi, dove la convivenza con la natura aggiunge al contesto salubre e campestre incontri ravvicinati con una gamma di animali e insetti perlopiù visti sul National Geographic.
Chi regge per tutto l’anno (e non sono molti) e riceve un parere positivo dal comitato che seleziona i nuovi arrivati, può diventare un aurovilliano. Il che significa ottenere un visto speciale di dieci anni per risiedere ad Auroville, mollare baracca e burattini nel paese di provenienza e trasferirsi nella foresta del Tamil Nadu, dove non esiste la proprietà privata («casa tua» è tua finché ci vivi, poi torna ad Auroville, anche se l’hai costruita coi tuoi soldi), non ci sono i lussi del mondo occidentale – macchina, centri commerciali, elettricità 24 ore su 24 – ma si può vivere una vita «semplice e dignitosa» accedendo a un sistema di reddito minimo garantito – la maintenance – di 13.000 rupie al mese (180 euro) per chiunque lavori all’interno di Auroville. Chi lavora e vuole più soldi, se lo stipendio lo permette si dà un aumento. Chi non vuole lavorare, campa coi soldi che ha altrove, fuori Auroville, comunque rimpinguando il Fondo centrale (ogni aurovilliano deve pagare 3.300 rupie al mese – 45 euro – di «contributi»). Chi non ha soldi e non lavora, va da un’altra parte.
Auroville, per contro, ci mette un sistema d’istruzione sperimentale, presidi sanitari, prodotti biologici a chilometro zero, cinema gratis, teatro gratis, corsi di ogni genere gratis e una qualità della vita decisamente superiore alla media del resto dell’India.
Antonio, 38 anni, vive ad Auroville da sette anni con sua moglie e due figli, cresciuti nella città-laboratorio. Parlano italiano, inglese, francese, tamil e un po’ di hindi. Quando vanno ai giardinetti, in Italia, si stupiscono delle mamme che rimproverano i propri figli: «Non correre che sudi!». Ad Antonio, che è il mio punto di riferimento di lucidità ad Auroville e si è preso la briga di spiegarmi nel dettaglio la parte tecnica del funzionamento della comunità, mentre mi preparavo per questo articolo ho chiesto: «Secondo te a cosa devo fare più attenzione quando cerco di spiegare cos’è Auroville? Come faccio a raccontare un posto così a gente che non ci è mai stata?». «Lascia stare – mi ha detto – io è sette anni che ci provo. Uno ad Auroville ci deve venire, ci deve stare per capire. Un altro modo non c’è».
[Scritto per The Towner; foto credit: Giuseppe Chiantera/UlixesPicture]