Asia – Tour di Obama, rassicurare e contenere

In by Gabriele Battaglia

Il viaggio in Asia di Obama: Giappone, Corea del Sud, Malaysia e Filippine. Tra un progetto di accordo commerciale trans-pacifico e quello che sembra sempre più una tattica di "contenimento" della Cina, Obama ha cercato di rassicurare gli alleati. Ma il "pivot" asiatico della strategia Usa rimane ancora una promessa. La Cina è sempre più assertiva e gli alleati invocano l’aiuto di Washington. Il 23 aprile scorso presidente degli Stati Uniti Barack Obama è atterrato a Tokyo per la prima tappa del suo tour asiatico. Dopo il Giappone il presidente USA si è recato in Corea del Sud, Malaysia e Filippine. L’obiettivo dichiarato era riaffermare la presenza americana in una delle regioni chiave del mondo a fronte della crescente influenza politica ed economica cinese.

La sicurezza è stata la priorità dell’agenda diplomatica di Barack Obama. In seconda battuta, il progetto di un accordo di libero scambio che coinvolga tutti i paesi che si affacciano sul bacino del Pacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP). Washigton doveva rassicurare gli alleati sul proprio ruolo di custode della stabilità dell’area, ma anche cercare nuovi partecipanti alle negoziazioni dell’accordo che potrebbe dare nuovo slancio all’export delle grandi aziende americane.

La scelta di partire proprio da Giappone e Corea del Sud ne è stato un chiaro indizio. I due paesi avvertono infatti costanti minacce alla propria sicurezza nazionale, soprattutto da quando la Corea del Nord ha ricominciato a febbraio dello scorso anno a minacciare attacchi. Ma hanno anche economie di consumo sviluppate e sono mercati appetibili, in particolare per grandi gruppi come Ford e General Motors che vorrebbero rompere i quasi monopoli dei colossi giapponesi e sudcoreani del settore automotive.

Un accordo di libero scambio poi costituirebbe un’opportunità dorata anche per le multinazionali dell’agro-alimentare: soprattutto in Giappone – dove l’import di prodotti alimentari è sottoposto a un regime fiscale sfavorevole per garantire ai produttori locali una quota di mercato più ampia– l’opposizione delle associazioni di settore all’entrata del Giappone nel TPP è forte.


[I paesi del TPP. Fonte: nippon.com]

D’altra parte, Seul e Tokyo rimangono alleati piuttosto riluttanti. Da quando sono in carica – da più di un anno – la presidente sudcoreana Park Geun-hye e Shinzo Abe si sono incontrati solo una volta. E proprio sotto la supervisione di Barack Obama, a latere del summit internazionale per la sicurezza nucleare dell’Aja, lo scorso marzo.

Sui rapporti tra i due paesi pesano questioni storiche ancora irrisolte. Due su tutte: quella delle comfort women, le donne che durante la seconda guerra mondiale venivano rapite e costrette a prostituirsi nei bordelli militari nipponici, e della sovranità su un’isola rocciosa (Takeshima per Tokyo, Dokdo per Seul) nel braccio di mare tra la penisola coreana e l’arcipelago giapponese.

Non ci sono però solo gli attriti tra Giappone e Corea del Sud. A preoccupare Washington è soprattutto il rischio di un’escalation sulle isole Senkaku o Diaoyu, al centro di un’aspra polemica tra Giappone e Repubblica popolare cinese. Al termine del colloquio con il primo ministro Shinzo Abe, Obama ha affermato che «sarebbe un grosso errore continuare a vedere aumentare la tensione sulla questione [delle isole Senkaku/Diaoyu] invece di passare al dialogo».

Obama ha comunque confermato quanto già detto prima del suo arrivo a Tokyo: «essendo sotto l’amministrazione giapponese», le isole sono oggetto del Trattato di mutua cooperazione e sicurezza del 1960. In base ad esso il Giappone ha concesso l’utilizzo del territorio nazionale da parte delle forze Usa a scopi militari in cambio del loro intervento in caso di attacco.


[Yonaguni e le possibilità di sorveglianza regionale. Fonte: asiapacificbase.com]

È la prima volta che Barack Obama prende posizione sulla diatriba – in precedenza parole simili erano state pronunciate dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton nel 2010.

Pechino non ha accolto di buon grado le affermazioni del presidente Usa. Già prima del suo arrivo in Asia, il ministero degli Esteri cinese, per bocca del suo portavoce Qin Gang, aveva avvertito che la Cina rifiutava l’interpretazione americana e aveva invitato Obama a «essere cauto con le parole e i fatti e impegnarsi per giocare un ruolo costruttivo nella pace della regione».

Da quando le isole sono state acquistate dal governo giapponese a settembre 2012, navi della guardia costiera giapponese e cinese hanno iniziato a pattugliare l’area sfidandosi a distanza ma senza mai dare luogo a scontri. Anche lo spazio aereo sopra le isole rimane conteso: secondo dati resi pubblici dal governo di Tokyo, in un anno, sono stati oltre quattrocento i velivoli cinesi intercettati dall’aviazione delle Forze di autodifesa nipponiche.

A novembre dello scorso anno, la tensione ha registrato un’altra impennata quando Pechino ha stabilito una zona di identificazione sullo spazio aereo sopra il tratto di mare dove si trovano le isole contese.

Intanto il governo giapponese ha dato il via al primo piano di espansione delle proprie strutture militari dopo 40 anni: sull’isola di Yonaguni, ad appena 150 chilometri a sud delle Senkaku/Diaoyu, a un passo da Taiwan, sono iniziati i lavori di costruzione di una base radar pensata per rafforzare la sorveglianza nell’area.

Yonaguni è solo l’ultima di una serie di mosse che indicano la volontà dell’amministrazione conservatrice di Shinzo Abe di procedere a un riarmo “soft”, nei limiti della costituzione postbellica che sancisce all’articolo 9 – fintanto che non sarà emendata – la rinuncia “eterna” alla guerra e al mantenimento di un esercito regolare.

Scelte seguite con apprensione anche al di fuori dei confini nazionali. Nonostante la sua popolarità in patria infatti, diverse critiche al suo operato sono arrivate dall’estero, anche dall’alleato di sempre: gli Stati Uniti. Dopo la sua visita di dicembre al santuario Yasukuni, dove sono commemorati alcuni criminali di guerra di classe A, si è fatta sentire anche Washington. «Gli Stati Uniti esprimono rammarico per la decisione dell’amministrazione giapponese di promuovere un’iniziativa che inasprirà le tensioni con i vicini del Giappone», si leggeva in un comunicato dell’ambasciata Usa a Tokyo di dicembre 2013.

Pechino studia le sue prossime mosse mentre per bocca di alcuni funzionari definisce il primo ministro giapponese un “piantagrane” che rischia di mettere a rischio non solo le relazioni bilaterali tra le due principali economie dell’area, ma anche l’intero equilibrio politico regionale. Un segnale di apertura è comunque arrivato la settimana precedente al tour asiatico di Obama con l’annuncio della prima visita ufficiale in oltre 18 anni del neo-governatore di Tokyo, Yoichi Masuzoe, a Pechino.

Masuzoe sarà in Cina per incontrare alcuni funzionari della capitale cinese per imparare dall’esperienza olimpica del 2008 e preparare al meglio i lavori per Tokyo 2020 proprio negli stessi giorni della visita di Obama in Giappone.

A suscitare l’irritazione di Pechino è stata anche l’ultima visita ufficiale di Obama in Estremo oriente. Dopo Giappone, Corea del Sud e Malaysia, il presidente americano si è recato nelle Filippine. Il presidente Usa e il presidente filippino Benigno Aquino si sono confrontati nuovamente su questioni legate in particolare alla sicurezza nella regione.

Proprio in occasione dell’arrivo di Obama a Manila è stato dato l’annuncio del raggiungimento di un accordo bilaterale che garantirà alle forze della marina militare americana l’accesso alle basi militari dell’arcipelago filippino, a più di vent’anni dal totale ritiro delle forze americane che lì erano stanziate. Una mossa che sottolinea la sempre maggiore attenzione che Washington assegna agli equilibri strategico-militari della regione, ma che rischia di inasprire ulteriormente i rapporti con la Repubblica popolare. Ed è importante che in un momento di scontro aperto con la Russia sulla questione ucraina, gli Stati Uniti mantengano un atteggiamento di apertura verso Pechino.

L’accordo bilaterale sull’uso delle basi militari rischia però di minare il consenso del governo filippino. Poco più di una settimana prima dell’arrivo il 28 aprile del presidente Usa, centinaia di attivisti si sono riuniti di fronte all’ambasciata americana nella capitale filippina per protestare contro la presenza militare americana, accusata di violare la sovranità territoriale filippina.

Un rinnovato impegno statunitense nella regione è conseguenza della tensione crescente nel Mar cinese meridionale. Su un braccio di mare che va da Taiwan all’Indonesia e costeggia il Sud della Cina e il Vietnam a ovest e Filippine a est, da quasi quarant’anni i paesi che vi si affacciano si contendono la sovranità su isole e interi tratti di mare. E non c’è da stupirsi, dato che secondo alcuni studiosi cinesi quel tratto di mare potrebbe essere “il Secondo Golfo Persico” data la sua ricchezza di risorse naturali, petrolio e gas naturale in particolare.


[Le rivendicazioni territoriali nel Mar cinese meridionale. Fonte: UNCLOS, CIA]

Non solo. Qui passa infatti un terzo del commercio marittimo mondiale. Nel 2013, la Cina ha ufficializzato dei viaggi turistici all’interno di un gruppo di isole contese tra i paesi affacciati sul bacino. E proprio con Manila c’è stato l’ultimo scontro diplomatico: dal 2012 navi militari cinesi presidiano l’atollo di Scarborough, su cui Manila rivendica sovranità. A marzo di quest’anno la contesa è riesplosa dopo che un’imbarcazione civile filippina è stata bloccata da un vascello della marina militare cinese a 160 chilometri dalle coste del paese-arcipelago.

La barca avrebbe dovuto portare rifornimenti ai soldati filippini stanziati sul Second Thomas Shoal, un atollo che costituisce la porta della zona economica esclusiva sul Mar cinese meridionale rivendicata da Manila. In seguito all’incidente, il presidente filippino Benigno Aquino ha richiamato a gran voce la comunità internazionale all’allerta nei confronti dell’espansionismo cinese – che, secondo Aquino, ricordava quello della Germania nazista a fine anni ’30 – e a prendere di conseguenza le parti delle Filippine nella contesa.

La visita di Obama nella regione Asia-Pacifico arriva in un periodo in cui, secondo quanto spiegato al New York Times da Benjamin Rhodes, membro vicario del Consiglio di sicurezza Usa, «i paesi dell’area vogliono che gli Stati Uniti siano una forza stabilizzante. Ma allo stesso tempo, “non vogliono che la tensione salga oltre un certo grado».

Secondo alcuni, il risultato è una rinnovata politica del contenimento – sul lato commerciale e militare – diretta alla Cina. Mentre quel ribilanciamento della diplomazia americana in direzione dell’Asia orientale – a pivot to Asia – tanto pubblicizzato dall’amministrazione Obama, ancora non si vede.  

[Scritto per Linkiesta; foto credit: nytimes.com]