I Paesi del sudest asiatico stanno preparando un trattato per aprire la zona di libero scambio più grande del mondo, che coinvolgerà 16 Paesi per 3,4 miliardi di persone. Tutto pronto per il 2015, dicono, ma gli Usa sono già pronti a rispondere con una partnership concorrente sul Pacifico.
Il nome c’è già: Regional comprehensive economic partnership. Così è destinata a chiamarsi l’area di libero scambio nella regione asiatica del Pacifico che, se tutto va come nei progetti, dovrebbe diventare la più importante del globo: 16 Paesi coinvolti, per una popolazione di 3,4 miliardi di persone e transazioni commerciali pari a 23 mila miliardi di dollari, circa un terzo dell’attuale di Prodotto interno lordo (Pil) mondiale.
I negoziati, che hanno messo sul chi vive gli Stati Uniti, sono destinati ad aprirsi all’inizio del 2013 o nella migliore delle ipotesi già a novembre 2012, durante l’East Asia Summit che riunisce i ministri dell’Economia della regione e al quale partecipano anche statunitensi e russi, esclusi però dalle trattative.
Intorno al tavolo siederanno invece le 10 nazioni dell’Associazione del Sud Est asiatico (Asean: Thailandia, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania e Cambogia), insieme con Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone, India e Nuova Zelanda.
La strada per trovare un accordo, però, è lunga: la conclusione dei colloqui è attesa non prima del 2015. E rischia di essere una stima comunque troppo ottimistica, considerate le probabili difficoltà nelle trattative tra economie così diverse tra loro.
Il progetto prevede di armonizzare e riunire i trattati di libero scambio già siglati dai Paesi dell’Asean con gli altri sei governi, con l’obiettivo di eliminare le barriere commerciali, sviluppare un ambiente più aperto per gli investimenti e proteggere la proprietà intellettuale.
Ma il vero valore aggiunto del patto, hanno sottolineato gli editorialisti asiatici, dovrebbe essere la capacità di adattarsi al mondo degli affari che ha caratterizzato il miracolo asiatico, fatto di forti legami tra business e governo.
Certo, con la presumibile ipotetica controindicazione di una minore enfasi sulla responsabilità sociale d’impresa. Da leggersi come poca attenzione al rispetto delle leggi sul lavoro, equi salari e rispetto per l’ambiente.
I Paesi coinvolti nelle trattative potranno partecipare dall’inizio o aggiungersi in un secondo momento, e le porte resteranno aperte anche per altri partner economici esterni.
Pechino, motore della crescita regionale e seconda economia al mondo, è comunque probabilmente destinata a essere il centro del nuovo asse. Ma "la Regional comprehensive economic partnership sarà un modo per favorire una maggiore integrazione della regione più dinamica al mondo", ha spiegato il ministro per il Commercio neozelandese, Tim Groser.
Dall’altra parte dell’oceano, gli Stati Uniti si sono messi in allarme. E hanno cominciato a spingere su un’iniziativa speculare e rivale.
Si tratta della TransPacific Partnership (Tpp), fino al 2008 un progetto limitato a Cile, Singapore, Nuova Zelanda e Brunei.
Lo slancio all’iniziativa è arrivato con l’ingresso nel club degli Stati Uniti che nell’anno della vittoria elettorale di Barack Obama hanno avviato i negoziati, diventando per gli osservatori il vero perno dell’accordo, in quanto Paese con il maggior peso geopolitico ed economico.
Per l’inquilino della Casa Bianca, il trattato rappresenta una delle priorità commerciali dell’amministrazione, perché ritenuto in grado di fare da volano per le esportazioni e per l’occupazione Usa mantenendo allo stesso tempo adeguati standard di tutela dei lavoratori e dell’ambiente.
Negli ultimi quattro anni, alle trattative per la TransPacific Partenership si sono unite Australia, Malaysia e Vietnam, mentre Messico e Canada, formalmente, entreranno a far parte dei colloqui a ottobre 2012.
Manca ancora, però, un invito ufficiale a Pechino. Tanto che la Cina ha fatto sapere attraverso il proprio megafono China Daily di considerare il Tpp uno strumento degli statunitensi per far valere i propri interessi mettendo da parte le potenze emergenti.
"Le due iniziative sono complementari, non necessariamente in competizione", ha però sottolineato il rappresentate Usa per il Commercio, Ron Kirk, parlando da Hanoi la scorsa settimana.
Il vero ago della bilancia potrebbe però essere il Giappone, terza economia al mondo: già tra i Paesi coinvolti nell’iniziativa asiatica, Tokyo è al momento fuori da quella promossa da Washington.
Sia da parte nipponica che da parte statunitense esistono infatti resistenze all’adesione di Tokyo alle trattative. I primi sono dubbiosi per quanto riguarda le concessioni nel campo dell’agricoltura e della pesca. Le case automobilistiche statunitensi chiedono invece che il mercato dell’auto del Sol Levante si apra maggiormente ai concorrenti.
Ma anche il Wall Street Journal, in un editoriale, ha esortato i politici di Tokyo a non esitare e a cogliere un’opportunità che potrebbe rappresentare uno stimolo positivo per l’economia nipponica.
L’adesione, ha scritto il quotidiano finanziario, sarebbe la terza grande svolta per il Paese dopo l’arrivo del commodoro Matthew Perry nell’800 che aprì l’impero all’Occidente e, dopo l’occupazione americana, alla fine della Seconda Guerra mondiale.
[Foto credit: xinhuanet.com; Scritto per Lettera43]