In tempi confusi e deliranti come questi, ognuno è preso dalla fretta di cercare conforto e riparo dove meglio crede. La sensazione dell’assedio culturale che Daesh – in un insieme di efferatezza, spettacolarità e magistrale uso della comunicazione di massa – è riuscito a diffondere nella popolazione europea con la serie di attentati a Parigi, ha spinto l’opinione pubblica ai bordi della ragione, alla ricerca di soluzioni e opinioni veloci, immediate e di immediata risoluzione di questioni complesse. Che richiederebbero invece il tempo di un pensiero lungo, approfondito e ben ponderato. In massa, un po’ per citazionismo da social network e un po’ per levarsi il pensiero, ci si arrocca sulle ultime posizioni irose di Oriana Fallaci, che con la famosa lettera-sfogo pubblicata poco dopo l’11 settembre sul Corriere della Sera ha offerto all’opinione pubblica una soluzione forbita e istantanea al problema della convivenza globale. In un momento in cui stavano saltando tutti i punti di riferimento coi quali ci orientavamo nel mondo che conoscevamo (come ha spiegato molto bene Alessandro Gilioli in questo pezzo intitolato Le parole giuste per dirlo).
Fallaci, nel 2001, prefigura uno scontro tra civiltà senza darci la possibilità – a noi che quello scontro l’avremmo vissuto, nei 14 anni seguenti – di provare a comprendere chi sono «gli altri». Mettendola sul piano del tempo, Fallaci ci ha spinto a non spenderne per capire e conoscere «gli altri», ma utilizzarne per prepararci, proteggerci, attaccare preventivamente, difendere quello che avevamo contro qualcuno che avrebbe tentato di sottrarcelo.
La storia degli ultimi 14 anni, fino a Parigi, ci ha dimostrato quanto tempo abbiamo buttato via, facendo avverare tutto ciò dal quale Tiziano Terzani, in risposta a Fallaci sempre sul Corriere, ci aveva messo in guardia. Rileggere Terzani in questi giorni ha un che di disperante, sancisce il nostro fallimento su tutta la linea davanti alla sfida di conoscere qualcosa di sconosciuto, pur avendo tutti i mezzi – tecnologici, ma soprattutto umani – per farlo.
La cattiva notizia è che noi italiani siamo tremendamente in ritardo sulla Storia, avendo buttato anni a rinforzare le nostre convinzioni e i nostri valori – patria, religione e libertà, la triade esaltata da Fallaci come se solo noi, in occidente, ne avessimo l’esclusiva – senza dimostrare il minimo interesse nella diversità culturale con la quale ci siamo ritrovati ad aver a che fare. Non sapendo chi sono o da dove arrivino i siriani, gli iraniani, i pakistani, i marocchini, i senegalesi, i bangladeshi, abbiamo trovato molto più comodo incasellarli nel nome collettivo di «immigrati», appiattendo e disumanizzando l’impressionante varietà di umanità che preme ai nostri confini.
Li vediamo e non li conosciamo, non ci parliamo, abbiamo già capito tutto di loro guardando come non si vestono come noi, come non mangiano come noi, come non pregano come noi.
Li vediamo, pensiamo di capirli, ma non abbiamo speso nessuna energia analitica per approfondire le loro storie, sentire cosa hanno da dire, quali sono i loro problemi, farsi spiegare da loro – che il terrorismo l’hanno vissuto a casa loro prima che arrivasse qui a casa nostra, e dal terrorismo sono scappati – cosa sta succedendo là dove l’estremismo cresce tanto da arrivare fino alle periferie delle nostre città occidentali. Ammassati in case che affittiamo loro, in nero; a fare lavori informali che paghiamo loro, poco, in nero; a ghettizzarli in aree dove possano vivere le loro vite diverse lontano dalla nostra sensibilità ipersuscettibile; a pregare in garage e sottoscala adibiti a moschee che gli affitiamo noi, in nero, proibendo loro di costruire, coi loro soldi, i loro luoghi di culto; a isolarli nelle classi delle nostre scuole, incapaci – e impreparati, a livello di organico – di offrire un’educazione multiculturale che gioverebbe in primis ai nostri figli italiani, esponendoli a culture diverse che potrebbero imparare a conoscere e magari a criticare con cognizione di causa, come già fanno i loro coetanei musulmani.
Sono vite ai confini – e noi e le nostre istituzioni ne siamo i primi responsabili – che spingono al martirio molto di più di un libro sacro letto e venerato da oltre un miliardo e mezzo di persone nel mondo. Tra le quali, in maggioranza schiacciante, nessuno mai si sognerebbe di farsi saltare in aria nel nome di Allah.
Eppure c’è una buona notizia. Il mondo che Fallaci e Terzani descrivevano quattordici anni fa, semplicemente, non esiste più. O meglio, esiste solo nella retorica di scontro che vede le posizioni opposte, ma equivalenti, di Daesh e di Salvini descrivere uno scontro di civiltà che per entrambi trova giustificazione nel Corano. A Salvini, come al Califfato, piace farci credere che milioni di musulmani siano così imbecilli da seguire acriticamente la medesima resa estremista che entrambi danno del Corano, e che per entrambi è funzionale allo stesso obiettivo: diffondere il terrore e trarne consensi.
Non è così, e i milioni di musulmani pacifici che popolano silenziosamente – forse troppo silenziosamente, ma come biasimarli in condizioni del genere? – tutto il mondo, assieme ai milioni di migranti che scappano dall’estremismo siriano, ne sono la dimostrazione vivente.
Le loro storie, che sarebbe bene iniziare a raccontare, date le condizioni attuali hanno del miracoloso. Contro ogni spinta estremista e contro ogni follia ultranazionalista, ci sono ragazzi e ragazze, uomini e donne, che nonostante tutto sono riusciti a diventare cittadini del mondo, a rivendicare la propria identità senza doversi né «integrare» (nell’accezione corrente – e sbagliata – del termine che vorrebbe l’integrazione come l’annullamento di sé all’interno delle strutture sociali e culturali pre-esistenti) né votarsi alla causa dell’estremismo islamico. Li possiamo chiamare musulmani europei, nel nostro caso, ed è ora che iniziamo a farci i conti.
Sono persone come Aishia, 22 anni, famiglia pakistana ma residente a Napoli, dove al momento è iscritta al terzo anno di studi orientali all’univesità l’Orientale. L’ho conosciuta sei mesi fa a una conferenza, siamo diventati amici su Facebook e qualche volta capita di scambiarsi qualche opinione su notizie del subcontinente. Ieri, sotto un mio post, ha scritto un commento su quanto successo a Parigi (in inglese, la terza delle lingue che parla e scrive fluentemente oltre all’urdu e all’italiano) che, da solo, vale più di tutto quanto non abbia scritto fino a questo momento.
D’accordo con lei, lo traduco qui sotto, nella speranza che le voci dei musulmani europei entrino finalmente a far parte del dibattito sui temi dell’attualità. Senza tenere conto della loro opinione, tutto il nostro blaterare non avrà mai alcun significato.
«L’estremismo non ha religione e noi musulmani siamo scioccati e profondamente colpiti da quanto successo a Parigi, non solo perché viviamo qui [in Europa], ma perché siamo anche noi esseri umani! In un momento così delicato dovremmo sostenerci l’un l’altro, ma ciò che tutti stanno facendo è chiederci ‘tu lo condanni [il terrorismo]?’ Certo che lo condanno!
Dopo gli attentati di Parigi ho capito che questo triste episodio si sta trasformando ancora una volta in una notizia manipolata da alcuni politici che, chiaramente, vogliono bollarci tutti come terroristi. Capisco la frustrazione della gente in questo momento, ma non posso permettere a nessuno di darmi della terrorista.
Le persone iniziano a puntare il dito contro qualsiasi cosa sia islamico, iniziano a guardarci in modo sospettoso e vogliono sapere se siamo ‘musulmani moderati’ (e io di certo non lo sono, indovinate un po’: porto l’hijab!). E questo è precisamente ciò che vogliono i terroristi. Metterci uno contro l’altro.
Ora la gente vuole tenerci a distanza, i nostri politici suggeriscono che per risolvere il problema si debba eliminare l’Islam dall’Europa, ma ora noi non siamo musulmani che vivono in Europa, siamo musulmani europei! Amiamo la nostra religione ,ma amiamo anche il nostro paese. E anche noi ci opponiamo al terrorismo!»