La consegna di Duterte alla Corte penale internazionale, che terrà la prima udienza a settembre, è un primo passo verso la giustizia, ma non basta. L’onere di fare chiarezza ora spetta al successore, intima la società civile. Secondo Human Right Watch, il presidente Ferdinand Jr. Marcos, in carica dal giugno 2022, dovrebbe adottare ulteriori misure per affrontare le continue violazioni dei diritti umani nelle Filippine, tra cui recenti esecuzioni extragiudiziali e attacchi contro attivisti e gruppi della società civile.
“Finalmente, è giustizia per tutte le vittime”. Quando la notizia si è diffusa, Ana è stata sopraffatta dalla gioia: l’11 marzo 2025 le autorità filippine hanno arrestato l’ex presidente Rodrigo Duterte a Manila su mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale dell’Aia. L’accusa è di crimini contro l’umanità in relazione alle presunte esecuzioni extragiudiziali avvenute tra il 2011 e il 2019 nell’ambito della campagna antidroga lanciata da Duterte quando era ancora sindaco di Davao, città nota per l’elevato tasso di criminalità, e proseguita negli anni della presidenza. Molte delle vittime all’epoca dei fatti erano giovani di bassa estrazione sociale, uccisi dalla polizia e da vigilantes incaricati di dare la caccia agli spacciatori.
Ana ricorda tutto molto bene. Era una notte del 2017, quando gli agenti hanno fatto irruzione nella sua casa di Caloocan, uccidendo brutalmente il marito e il suocero in poche ore. La ragazza, che all’epoca era incinta di cinque mesi, è rimasta coinvolta nelle violenze venendo colpita da un proiettile vagante. Da allora non ha mai smesso di chiedere vendetta. Non è la sola. Migliaia di vite sono state sconvolte dalla guerra contro la droga di Duterte: genitori hanno seppellito i propri figli, mogli hanno compianto mariti, decine di bambini sono rimasti orfani. Secondo i dati della polizia, 6.000 persone sono state uccise nelle operazioni, ma i gruppi per i diritti umani affermano che il bilancio reale potrebbe arrivare fino a 30.000 vittime, compresi molti innocenti e semplici passanti colpiti nel fuoco incrociato. Eppure, dalla fine dell’amministrazione Duterte a oggi, solo otto poliziotti sono stati condannati per cinque omicidi commessi durante la guerra alla droga. Le famiglie delle vittime sono spesso restie a perseguire azioni legali per la troppa paura o a causa di vere e proprie minacce. Con il risultato che oggi sono ancora centinaia le persone senza accesso a un giusto processo.
L’approccio duro di Duterte contro lo spaccio di stupefacenti ha suscitato forti critiche all’interno del paese. L’opposizione politica ha avviato un’indagine sugli omicidi. Duterte, a sua volta, ha incarcerato il suo più accanito oppositore, il senatore Antonio Trillanes, e accusato alcuni media e attivisti per i diritti umani di tradimento e cospirazione. Né ha mai ufficialmente mostrato pentimento. Comparendo davanti al Senato nel 2024, l’ex presidente non ha avanzato “nessuna scusa, nessuna giustificazione” per la sua condotta, che al contrario avrebbe mantenuto – come dichiarato – “nell’interesse del Paese”.
La consegna di Duterte alla Corte penale internazionale, che terrà la prima udienza a settembre, è un primo passo verso la giustizia, ma non basta. L’onere di fare chiarezza ora spetta al successore, intima la società civile. Secondo Human Right Watch, il presidente Ferdinand Jr. Marcos, in carica dal giugno 2022, dovrebbe adottare ulteriori misure per affrontare le continue violazioni dei diritti umani nelle Filippine, tra cui recenti esecuzioni extragiudiziali e attacchi contro attivisti e gruppi della società civile.
L’appello è contenuto nel World Report 2025, pubblicato dall’Ong a gennaio. “Nuove rivelazioni sul ruolo di alti funzionari dell’amministrazione Duterte e della polizia nelle atrocità della ‘guerra alla droga’ evidenziano la necessità di radicali riforme nelle forze dell’ordine”, recita il rapporto.
Il Dipartimento di Giustizia ha creato una task force, lo scorso novembre, per indagare sugli omicidi commessi durante la “guerra alla droga”. L’iniziativa è scaturita dall’ammissione – poi ritrattata – di Duterte di aver creato uno “squadrone della morte” durante il suo mandato da sindaco a Davao City e, poi da presidente, di aver “incoraggiato” gli agenti di polizia a uccidere i sospettati di narcotraffico. Ma l’impunità continua.
Secondo la ong locale Dahas, tra gennaio e novembre 2024, la polizia e aggressori non identificati hanno ucciso 332 sospettati di contrabbandare stupefacenti in tutto l’arcipelago. Da quando Marcos ha assunto la presidenza, 841 persone sono morte in assassini legati alla droga.
“Non vi è stato alcun miglioramento nell’accertamento delle responsabilità per le uccisioni commesse durante la ‘guerra alla droga’ nel 2024, dal momento che sono stati condannati agenti di polizia solo in quattro casi dal 2018”, spiega HRW. Le critiche non si fermano qui. Stando alla Ong, le autorità vessano e perseguitano senza fondamento esponenti della società civile attraverso il cosiddetto “red-tagging”, il perseguimento legale di individui o organizzazioni sulla base di legami veri o pretestuosi con gli insurrezionisti comunisti. I gruppi per i diritti umani hanno segnalato quattro nuove sparizioni forzate nel 2024. Molte vittime sono attivisti, tra cui diverse personalità impegnate nella difesa dei diritti della terra e dell’ambiente.
“Il presidente Marcos dovrebbe attuare tempestivamente riforme radicali della polizia e migliorare in generale la situazione della democrazia nel paese”, ha affermato Human Rights Watch esortando i partner internazionali ad amplificare l’appello. Un’altra questione sollevata nel rapporto riguarda l’adesione alla CPI: Duterte ha ritirato le Filippine dal trattato istitutivo, lo Statuto di Roma, nel marzo 2018 in risposta alla decisione del tribunale di avviare un esame preliminare sulle violazioni dei diritti umani durante la campagna contro il narcotraffico. Secondo lo Statuto, la CPI mantiene la giurisdizione sui crimini commessi prima del ritiro e nel 2021 è stata aperta un’indagine formale. Inizialmente, l’amministrazione Marcos, insediatasi nel 2022, aveva contestato l’intervento dell’Aia. Ma la posizione del presidente è progressivamente cambiata, tanto che a novembre ha accettato di collaborare con l’Interpol in caso venisse emesso un mandato di arresto, come infatti è avvenuto. La metamorfosi di Ferdinand Jr., più che rispondere a un senso di giustizia, va attribuita alla progressiva rottura con la famiglia Duterte. Quelle dei Marcos e dei Duterte sono due dei clan più importanti del paese asiatico. Il primo ha base nella provincia di Ilocos Norte, a nord, il secondo a Davao, nel sud dell’arcipelago.
Marcos e Sara Duterte, la figlia di Rodrigo, si erano alleati in vista delle elezioni del maggio 2022, sostenendosi a vicenda alla ricerca rispettivamente della della presidenza del paese e della vicepresidenza. L’alleanza ha tuttavia cominciato ben presto a scricchiolare fino allo strappo finale: nel luglio 2024 Sara si è dimessa da segretaria all’Educazione, primo atto di uno di uno scontro politico culminato nei mesi successivi in minacce di morte e accuse di ogni genere. Sullo sfondo c’è la corsa verso le elezioni generali del 2028, alle quali punta la vicepresidente e alle quali Marcos – vincolato al limite di un solo mandato – non si potrà ricandidare. Le legislative del maggio prossimo sono ugualmente terreno di scontro clanico, come suggerisce l’endorsement di Rodrigo Duterte a nove dei candidati in lizza. La spartizione delle cariche tra potentati familiari è stata oggetto a inizio aprile di una petizione presentata da ex giudici e vescovi alla Corte Suprema a favore di una “legge anti-dinastie”, come previsto dalla Costituzione del 1987. “Queste famiglie che detenevano poteri politici quasi sempre danno priorità a politiche che avvantaggiano i propri interessi, trascurando un più ampio sviluppo della comunità, perpetuando la disuguaglianza economica e mantenendo la dipendenza degli elettori da loro”, recita la petizione.
Lungi dall’avere unicamente connotazioni politiche, la lotta tra le due casate ha anche pericolose conseguenze per la stabilità del paese e la sicurezza di tutto il Sud-est asiatico. Secondo Phar Kim Beng, esperto di paesi Asean presso l’International Islamic University of Malaysia, nel contesto filippino le faide familiari implicano vendette personali, tradimenti e la mobilitazione di eserciti privati, clan politici e reti finanziarie illecite. Spesso radicate nei sistemi clientelari locali, possono destabilizzare intere province e, a volte, lo stesso governo nazionale. Nel caso Marcos-Duterte, la battaglia sta frammentando i centri di potere in tutto il paese, alimentando violenza attraverso la diffusione di armi leggere e finanziamenti illeciti provenienti dai POGO (Operatori di Gioco Offshore Filippini), nonché dal traffico di droga, in calo dopo lo sterminio del decennio trascorso ma sempre molto presente.
Per l’esperto, l’aspetto più pericoloso dello scontro settario è proprio la possibile crescita del mercato nero delle armi, provenienti dalle zone di conflitto di Mindanao (l’isola soggetta da decenni a movimenti separatisti di matrice islamica), nonché la formazione di milizie private legate ai clan politici e di scorte militari corrotte. Allo stesso tempo cresce il rischio che i fazionalismi compromettano il funzionamento dell’esercito e delle forze di polizia favorendo le esecuzioni extragiudiziali, le violazioni dei diritti umani e il sovvertimento dell’ordine pubblico.
“A meno che Marcos e Duterte non riducano l’escalation del conflitto, cosa che sembra improbabile ora che l’ex presidente langue in una prigione straniera,” – avverte Phar – “le Filippine rischiano concretamente di implodere, con ripercussioni ben oltre i loro confini”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su GariwoMag]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.