Le prime mosse di Trump nel Sud globale, la crisi nella Repubblica democratica del Congo, ma anche le alleanze spaziali tessute da Pechino nel continente con apparenti scopi “dual use”. Di questo e molto altro nell’ultima puntata di Africa rossa, la rubrica sui rapporti tra la Cina e il continente, a cura di Alessandra Colarizi
- Si fa presto a dire “aiuti internazionali”
- Lo strappo tra Trump e il Sudafrica
- La crisi in Congo vista da Pechino
- In bilico il Corridoio di Lobito
- Guerre satellitari
- Il deficit commerciale africano e la variabile aurea
- La rimonta della Cina nelle infrastrutture della Tanzania
- L’interesse cinese per i minerali vale 57 miliardi di dollari
- Il “modello Pakistan” arriva in Africa
- Trump approva l’accordo sulle isole Chaogs
- La Cina invita l’India a collaborare in Africa
Dopo mesi di speculazioni, la strategia estera di Donald Trump sta cominciando a prendere una forma più definita: la politica dell’America First è diventata più spregiudicata rispetto al primo mandato, la minaccia il presupposto di qualsiasi negoziato. Le ricadute per il Sud globale sono già palpabili. L’Africa non fa eccezione. Anche se non siamo ancora arrivati all’uso di espressioni colorite come “shithole countries”.
Non serve dirlo, nella lista dei provvedimenti più controversi primeggia la decisione di congelare gli aiuti internazionali e smantellare l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID), che sta procedendo a licenziare migliaia di dipendenti in tutto il mondo. Per il continente africano è una vera doccia fredda. Negli ultimi cinque anni, infatti, un terzo dei fondi ora a rischio sono stati destinati all’Africa. Nel 2023 tra i venti primi beneficiari degli aiuti statunitensi figuravano dodici paesi africani.
Secondo il Center for Global Development, la Repubblica Democratica del Congo, l’Etiopia, la Liberia, la Somalia, il Sudan del Sud, il Sudan e l’Uganda hanno ricevuto oltre un quinto del totale dell’assistenza allo sviluppo proprio dalla USAID. Considerate le piccole dimensioni delle loro economie, gli aiuti rappresentano in media l’11% del reddito nazionale lordo.
Dei 38 miliardi di dollari spesi dall’USAID nel 2023, quasi venti sono stati destinati a programmi sanitari (contro malaria, tubercolosi, Hiv/Aids e malattie infettive) nonché all’assistenza umanitaria in caso di emergenze e guerre. Come se non bastasse, oltre al taglio dei fondi, Trump ha disposto – di nuovo – l’uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, di cui Washington è da sempre il principale supporter, contribuendo a oltre il 15% dell’intero budget. Per quanto l’impegno americano nel comparto medico potrebbe in parte sopravvivere grazie al supporto di privati, come la Bill & Melinda Gates Foundation.
Se l’arretramento americano implicherà un avanzamento cinese è probabile ma non scontato. Dalla pandemia Pechino ha reso il settore sanitario il fiore all’occhiello della Belt and Road Initiative, macchiata dalle accuse di neocolonialismo. Difficilmente sarà però una sostituzione anche lontanamente equiparabile. Al tempo del primo ritiro statunitense Pechino ha risposto aumentando il proprio contributo finanziario all’OMS di soli 30 milioni di dollari. In confronto 1,3 miliardi di dollari è quanto sborsato dagli Stati Uniti nel biennio 2022-2023. Soprattutto la Cina – che si considera ancora un “paese in via di sviluppo” – ha una concezione tutta sua di assistenza internazionale, che non si basa sulle sovvenzioni, bensì principalmente sui prestiti e le attività commerciali. Al contrario Washington tende a concepire gli “aids” come una concessione unidirezionale, una forma di “altruismo” top-down. Questo rende difficile quantificare in maniera tra l’USAID e l’equivalente mandarina, la China International Development Cooperation Agency (CIDCA), lanciata nel 2018. Ne ho scritto anche nel mio libro Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro. Nel 2023, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha pubblicato un rapporto molto dettagliato sul tema. A seguire alcuni dei punti più interessanti:
- Sebbene la CIDCA sia stata creata per colmare la frammentazione burocratica, il Ministero del Commercio (MOFCOM) continua a eseguire progetti di aiuti cinesi. Questo vuol dire che sebbene la nuova agenzia abbia il compito di coordinare l’esecuzione di quanto stanziato dal dicastero, continua ad avere un rango inferiore, fattore all’origine di possibili frizioni burocratiche.
- C’è consenso sul fatto che il sistema di cooperazione allo sviluppo internazionale cinese sia affetto da “lacune e colli di bottiglia”, come “mancanza di coordinamento; assenza di un sistema legale completo; mancanza di accessibilità ai dati, trasparenza e statistiche affidabili; una maggiore necessità di monitoraggio e gestione basata sui risultati”.
- I volumi esatti dei finanziamenti per lo sviluppo cinesi sono difficili da valutare “perché il governo cinese non divulga numeri e statistiche ufficiali. I dati sono inaccessibili non solo per gli osservatori al di fuori della Cina, ma anche per gli studiosi e gli analisti cinesi”.
- Gli aiuti e i finanziamenti per lo sviluppo cinesi “sono spesso accompagnati da sforzi per coltivare un’informazione mediatica amichevole”.
- “La qualità e la sostenibilità della cooperazione allo sviluppo della Cina sono motivo di preoccupazione”, così come lo è l’impatto sociale e la sostenibilità dei progetti infrastrutturali.
In bilico il Corridoio di Lobito
Ridurre la competizione Cina-Usa in Africa agli aiuti sarebbe però fuorviante. Tra il 2000 e il 2021, il gigante asiatico ha prestato 1,34 mila miliardi di dollari per realizzare progetti infrastrutturali, energetici e minerari a livello globale. Il surrogato americano della Belt and Road, l’International Development Finance Corporation (DFC), istituita sotto la prima amministrazione Trump per combattere l’influenza della Cina nel Sud globale, non si avvicina nemmeno lontanamente ai numeri cinesi. Ora, secondo cinque fonti consultate da Bloomberg, a Washington si starebbe pensando di spostare i finanziamenti dell’USAID alla DFC. L’operazione aiuterebbe a controbilanciare la riduzione dell’assistenza umanitaria con un ruolo maggiore del private equity. L’anno scorso la USAID ha approvato 553 milioni di dollari per realizzare la Lobito Atlantic Railway, un tassello fondamentale del collegamento ferroviario che si propone di connettere le miniere di rame in Congo e Zambia al porto di Lobito, sulle coste dell’Angola. Il costo stimato di tutto il progetto si aggira intorno al miliardo di dollari.
Molto è stato scritto e detto sulla sensatezza di un investimento di questa portata. Soprattutto perché non cambierebbe la geografia delle forniture minerarie, che continuerebbero a fluire prevalentemente dove sono più utilizzate: nelle fabbriche a Est, non a Ovest. Ma il fraintendimento forse è a monte: si sta cercando di far passare il piano per un’iniziativa americana laddove i paesi coinvolti – in termini di investimenti e contributo materiale – sono diversi. Persino il presidente della RDC Felix Tshisekedi, in una recente intervista al New York Times, ha rivelato di voler concludere un accordo minerario con gli Stati Uniti. “L’amministrazione Trump ha già espresso interesse per un accordo che potrebbe garantire la fornitura di minerali strategici direttamente dal Congo”, ha affermato Tshisekedi, aggiungendo di aver proposto che America ed Europa condividano le ricchezze del suo paese, settore oggi dominato dalla Cina. Dando seguito alle rivelazioni di Tshisekedi, la portavoce presidenziale Tina Salama ha chiarito meglio il senso di quelle affermazioni: Kinshasa vuole spingere Washington e Bruxelles ad “acquistare direttamente minerali essenziali” dal Congo piuttosto che reperire risorse “saccheggiate” e “contrabbandate” attraverso il Rwanda.
Nel frattempo, il governo congolese ha sospeso le esportazioni di cobalto per quattro mesi al fine di frenare l’eccesso di offerta del metallo sul mercato internazionale e controllare i prezzi, scesi ai minimi da 21 anni. La misura è entrata in vigore lo scorso 22 febbraio e sarà riesaminata tra tre mesi. Le autorità competenti stanno inoltre predisponendo misure aggiuntive per bilanciare il mercato del minerale, incoraggiando una maggiore lavorazione nel Paese. Il provvedimento giunge in una fase espansiva del gigante minerario cinese CMOC, che negli ultimi due anni ha consistente aumentato la produzione ne i giacimenti congolesi.
Al di là dell’impatto economico dei tagli, tuttavia, l’operazione di Trump potrebbe avere anche risvolti politici, che Pechino non mancherà di capitalizzare. Mentre i decenni di impegno in Africa lasciano pochi dubbi sulla serietà e l’importanza attribuita dalla Cina all’Africa, l’imprevedibilità della nuova amministrazione americana rischia di alimentare l’impressione che l’occidente rivolga gli occhi al continente solo quando serve, soprattutto per cercare di ridurre la distanza da Pechino.
Quello degli aiuti non è l’unico settore a venire ridimensionato. Donald Trump ha anche sospeso l’applicazione del Foreign Corrupt Practices Act (FCPA), legge che proibisce alle aziende e ai cittadini statunitensi di utilizzare la corruzione per ottenere vantaggi economici all’estero. Il presidente ha giustificato la decisione definendola un modo per aumentare la competitività americana rispetto ai concorrenti cinesi in Africa, Asia e Medio Oriente, aree del mondo in cui le tangenti – più che altrove – agevolano il business.
È invece ancora in bilico l’African Growth Opportunity Act (AGOA), l’accordo commerciale che offre ai paesi dell’Africa subsahariana un accesso esente da dazi al mercato statunitense. Il programma, avviato 25 anni fa, scade a settembre, e difficilmente sopravviverà nella sua forma attuale. Secondo diversi analisti intervistati da Semafor, il pallino di Trump per le tariffe lascia poca speranza di un rinnovo. Un membro del Congresso ha affermato di considerare l’AGOA “morto all’80%”.
Anche il settore della sicurezza potrebbe subire pesanti rimaneggiamenti; in questo caso per ridurre i costi, come previsto dal Dipartimento per l’efficienza governativa di guidato da Elon Musk. Stando a NBC, la sforbiciata potrebbe colpire anche l‘US Africa Command (AFRICOM), che diventerebbe una posizione di sottocomando sotto il United States European Command con base a Stoccolma. Negli ultimi anni l’AFRICOM è stata tra le agenzie statunitensi più critiche nei confronti della presenza cinese nel continente, prevedendo in più occasioni l’imminente apertura di nuove basi militari oltre quella di Gibuti.
Possibili effetti economici del ritorno di Trump sul Sud globale:
- Politiche contraddittorie tra crescita economica (tagli fiscali, deregulation) e protezionismo (guerre commerciali).
- Rischio di re-inflazione e rafforzamento del dollaro, con impatti negativi sulle economie emergenti.
- Un aumento dei tassi d’interesse (per ora lasciati invariati alzerebbe il costo del finanziamento per i paesi africani
The China Global South Project segnala come, negli ultimi anni, il soft power americano abbia perso smalto. Streamer e aziende tecnologiche a stelle e strisce conservano la loro influenza, ma non raccontano necessariamente storie americane. Basti pensare che tra i maggiori successi di Netflix in Africa figura la serie sudcoreana Squid Game.
Se le prime mosse di The Donald non promettono nulla di buono, le candidature al Dipartimento di Stato potrebbero comportare qualche ritocco sul corso delle relazioni con il continente. Una novità già c’è: il fatto che da giorni circolino (seppur informalmente) dei nomi segna un allontanamento dal primo mandato di Trump, quando posizioni chiave per l’Africa rimasero vacanti per anni e altre cambiarono a più riprese. Tra i papabili pare ci sia J. Peter Pham, ex inviato speciale degli Stati Uniti per la regione del Sahel in Africa da marzo 2020 fino all’arrivo di Biden. In precedenza, Pham ha prestato servizio come inviato speciale per la regione dei Grandi Laghi in Africa nonché come Direttore dell’Africa Center presso l’Atlantic Council, di cui è stato vicepresidente. Pham potrebbe essere affiancato da Tibor Nagy: già assistente segretario per gli Affari africani sotto il primo mandato di Trump, Nagy dovrebbe tornare al Dipartimento di Stato, dove porterà decenni di esperienza USA-Africa ricoprendo la carica di sottosegretario ad interim per il management. Qui altre figure potenzialmente rilevanti per la strategia americana nel continente.
Va detto che non tutti osservano le manovre di Trump con preoccupazione. Tra l’elite africana c’è una cerchia di ottimisti che guarda con speranza alla predilezione del nuovo presidente americano per gli affari a scapito dei diritti umani. Postura, questa, che peraltro potrebbe indebolire il coordinamento euro-americano nel continente, lasciando alle capitali africane più margine di manovra. Chiaramente, a guadagnarci sarebbero soprattutto Cina, Russia e le potenze medie non democratiche, come Turchia ed Emirati Arabi.
D’altro canto, una conferma di Pham lascerebbe intendere una virata più “mercantilista”, e meno ideologizzata, nei rapporti tra Stati Uniti e Africa. Questo non vale con Pretoria. Come prevedibile, le relazioni tra Washington e il Sudafrica sono già in caduta libera. Il 2 febbraio Trump ha annunciato che taglierà tutti i futuri finanziamenti al paese per presunte leggi discriminatorie contro i bianchi. Probabilmente non è una coincidenza che il fidato Elon Musk, naturalizzato americano, sia di origini sudafricane.
Lo strappo tra Trump e il Sudafrica
Pechino non avrebbe potuto chiedere di meglio: da un paio di anni – potremmo dire soprattutto dall’inizio della guerra in Ucraina – Pretoria è diventata un partner strategico nel continente africano, con cui la Cina (in tandem con Mosca) sta aumentando il coordinamento nelle istituzioni multilaterali, Brics in primis. Un allineamento che, come intuibili, ha sempre più natura politica, oltre che economica. A fine marzo scade l’ultimatum imposto dal governo sudcoreano a Taipei per spostare il suo ufficio di rappresentanza – sorta di ambasciata informale – fuori dalla capitale. Manovra che, insieme alla richiesta di cambiare il nome in “ufficio commerciale”, ridimensionerebbe l’importanza delle relazioni informali con Taipei; i rapporti diplomatici sono stati interrotti nel 1997 quando Pretoria ha riconosciuto la Repubblica popolare.
Durante la recente ministeriale del G20 a Johannesburg, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, incontrando il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, ha affermato che la Cina sostiene il Sudafrica nell’adempimento delle sue responsabilità in quanto presidenza del G20, ponendo lo sviluppo al centro dell’agenda internazionale, dando voce forte al Sud del mondo, unendo gli sforzi congiunti dei paesi in via di sviluppo”. Il tutto mentre il segretario di Stato Marco Rubio ha boicottato il meeting, uniformandosi all’ordine esecutivo di Trump contro Pretoria. Ramaphosa ora spera in un qualche accordo per evitare il peggio: ovvero una sospensione dell’AGOA.
Intanto secondo voci di corridoio, Joel Pollak, sudafricano come Musk e attualmente redattore capo del sito web conservatore Breitbart News, potrebbe diventare il prossimo ambasciatore americano nel paese. È lecito attendersi un inasprimento delle tensioni con la Cina, che Pollak ha dichiarato in un’intervista ai media israeliani “spoglierà l’Africa della sua ricchezza mineraria e si approprierà di tutto ciò che può”.
A questo proposito, Naa Adjekai Adjei del Global Development Policy Ctr. ha effettuato uno studio interessante, determinando come i paesi africani hanno la capacità di esercitare la cosiddetta “agency” quando negoziano accordi con Pechino. L’esperto traccia un confronto tra l’Uganda e il Ghana concludendo che Accra ha “dimostrato un’importante capacità di azione durante la fase di pianificazione e regolamentazione della centrale idroelettrica di Bui, integrandola nelle politiche di sviluppo nazionale e nella pianificazione del settore energetico”.
Per ora resta invece valida la partnership strategica con il Kenya, che Biden ha reso uno dei principali alleati africani di Washington. Secondo una nota emessa venerdì dal Dipartimento di Stato americano, “Rubio ha parlato con il presidente keniano William Ruto “per discutere del conflitto in corso nella Repubblica democratica del Congo orientale, inclusa l’inaccettabile cattura di Goma e Bukavu da parte del gruppo armato M23 sostenuto dal Rwanda. Entrambi i leader hanno ribadito il loro impegno a spingere per una risoluzione diplomatica della crisi”.
Non solo Sudafrica e Repubblica democratica del Congo. C’è un altro stato africano ad essere già finito nel mezzo del risiko sino-americano. La Somalia, con cui Pechino ha quasi congelato i rapporti dopo che negli ultimi anni Mogadiscio ha ripetutamente criticato il trattamento degli uiguri in sede Onu. Proprio il palazzo di vetro di New York ha fatto da sfondo a un raro incontro tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e l’omologo somalo Ahmed Moallim Fiqi il 18 febbraio. L’ammorbidimento della Cina difficilmente prescinde dai piani trumpiani per un possibile riconoscimento formale del Somaliland, regione separatista senza alcuna statualità internazionale. Ma corteggiata anche da Taiwan, che un po’ ne condivide il destino. Non a caso, riportando il meeting tra Wang e Fiqi, Xinhua ha rimarcato come il ministro somalo abbia “fermamente sostenuto il principio Una sola Cina”.
La crisi in Congo vista da Pechino
La veloce avanzata di M23 in tutto l’Est del paese si inserisce nel pluridecennale conflitto nella regione del Kivu, contesa anche per il controllo delle ingenti risorse minerarie. Gli sviluppi nella regione non possono non preoccupare la Cina, che ha investito massicciamente nella RDC e possiede la maggior parte delle miniere di cobalto e rame del paese. Non solo. Nel 2023, il ministro delle Finanze Nicolas Kazadi ha affermato che la RDC ha perso quasi 1 miliardo di dollari all’anno per via del contrabbando di minerali attraverso il Ruanda. La maggior parte di queste attività illecite nel Kivu Sud sono di proprietà cinese.
A fine gennaio, la missione cinese presso le Nazioni Unite ha rilasciato un comunicato in punti, che rispecchia in maniera chiara le priorità di Pechino per il paese Sub-sahariano.
- La Cina invita l’M23 a rispettare l’accordo di cessate il fuoco, a smettere di ricorrere alla forza, a ritirarsi dai territori che ha preso e a tornare sulla strada della risoluzione politica. Tutte le forze esterne dovrebbero astenersi dal fornire supporto militare a M23 e ad altri gruppi armati per impedire un ulteriore deterioramento della situazione.
- In secondo luogo, la protezione dei civili dovrebbe essere la massima priorità.
- In terzo luogo, MONUSCO dovrebbe essere supportata nello svolgimento dei propri compiti in conformità con il suo mandato.
- In quarto luogo, dobbiamo sostenere fermamente gli sforzi di mediazione regionali. Nelle circostanze attuali, è ancora più urgente intensificare gli sforzi di mediazione. Sebbene il vertice tripartito sia stato rinviato, il processo di Luanda [avviato nel luglio 2022 dall’Angola, ndr] rimane una piattaforma efficace per risolvere i problemi della RDC orientale.
Da notare come nella crisi congolese – una crisi interna – Pechino si sia esposto molto più di quanto non faccia di solito. Senza fermarsi alle abituali accuse allusive, bensì condannando il Rwanda per nome.
Guerre satellitari
Satelliti, telescopi per il monitoraggio spaziale e stazioni di terra. Le alleanze spaziali di Pechino in Africa sono cosa nota: ammontano a oltre 23 i paesi del continente ad aver stretto partenariati spaziali con la Repubblica popolare per ottenere forniture tecnologiche di varia natura. Un aspetto rimasto sotto traccia è il modo in cui – secondo un’inchiesta della Reuters – la Cina starebbe sfruttando quella tecnologia per accedere ai dati e alle immagini raccolti nei paesi partner. Obiettivo raggiunto anche grazie alla presenza a lungo termine del personale cinese dispiegato presso le strutture finanziate e costruite nel continente. Caso esemplare è quello dell’Egitto, importante alleato americano, al quale Pechino ha assicurato supporto nello sviluppo satellitare: uno dei tre lanci – secondo Reuters – ha coinvolto un apparecchio di proprietà cinese messo a disposizione del Cairo, “in grado di effettuare una sorveglianza di livello militare”. Ugualmente, le stazioni terrestri cinesi all’estero, come quella costruita in Etiopia e l’altra pianificata in Namibia, possono servire per coordinare le operazioni militari, tracciare lanci missilistici e monitorare le risorse spaziali di altri paesi.
Il deficit commerciale africano e la variabile aurea
Le importazioni cinesi dall’Africa sono aumentate a 116,8 miliardi di dollari l‘anno scorso, in salita del 6,9% rispetto al 2023. A trainare gli acquisti è stata la domanda di oro e prodotti agricoli. Questo ha permesso di ridurre leggermente il tradizionale deficit commerciale del continente, sceso a 62 miliardi di dollari dai 64 miliardi di dollari dell’anno precedente.
La bilancia negativa dell’Africa ha cause che però vanno oltre l’export di “made in China” a basso costo. Il problema è radicato nelle difficoltà incontrate dal continente nel costruire un settore manifatturiero forte e competitivo, in grado di allentare la dipendenza dalle esportazioni di materie prime. In questo la Cina c’entra molto poco. Sono piuttosto le criticità interne strutturali, come le politiche industriali incoerenti o del tutto assenti, la corruzione, e i sistemi economici predatori coltivati dalle élite politiche, il principale ostacolo alla crescita industriale. Pechino ha i mezzi e l’interesse a sostenere lo sviluppo industriale del continente, a cui è stato dedicato ampio spazio nel piano di sviluppo annunciato al termine dell’ultimo Forum Cina-Africa. Bisogna ammettere tuttavia che gli ultimi dati evidenziano un fenomeno “distorsivo” piuttosto interessante: secondo gli esperti infatti il parziale raddrizzamento della bilancia commerciale sino-africana va imputato all’incremento degli acquisti di oro, che hanno compensato i bassi prezzi del petrolio. L’attrazione della Cina per le riserve auree è imputabile all’incertezza del ruolo internazionale del dollaro (nonché del sistema di pagamenti bancari basato sullo Swift) davanti alle nuove iniziative che vedono protagonisti i paesi emergenti. L’insofferenza verso le sanzioni americane non è una prerogativa solo cinese. E così milioni di dollari continuano a fluire dalla Repubblica popolare nella costruzione di impianti per la lavorazione dell’oro in Sudafrica e Ghana, i due principali esportatori africani del metallo prezioso.
Quando si parla di commercio sino-africano non si può non parlare dello Hunan. Sì ancora lei: la provincia della Cina centrale che ormai da diversi anni è diventata un fondamentale polo logistico delle transazioni verso il continente. Nuove misure politiche e finanziarie sono state inserite in un piano congiunto in 11 punti che mira a consolidare il ruolo strategico della regione negli scambi con l’Africa. Si spazia dai sussidi per importare beni africani, al supporto economico per lo sviluppo di strutture di stoccaggio e logistica nel continente. In Nigeria è stata istituita addirittura una zona di libero scambio tra lo stato Kogi e lo Hunan.
Come scrivevo nelle precedenti puntate, la provincia, che ha un’economia in buona parte contadina, ha qualcosa da “insegnare” all’Africa. Da diversi anni Pechino si è impegnato a supportare la produzione agricola del continente. Anche rispondendo ai gusti sempre più esigenti dei consumatori cinesi. In quest’ottica il governo cinese ha iniettato quasi 200 milioni di dollari nel settore del cacao della Costa d’Avorio, il primo produttore al mondo. Il 40% di quanto lavorato negli impianti cinesi finirà in Cina.
L’interesse cinese per i minerali vale 57 miliardi di dollari
Dopo quasi tre decenni di falsi inizi, la miniera di ferro di Simandou, in Guinea, è finalmente in procinto di diventare operativa. A inizio febbraio l’azienda americana Wabtec ha annunciato un accordo per le forniture ferroviarie necessarie al trasporto dei minerali dal giacimento fino alle coste. Il progetto, in cui sono presenti il gigante cinesi Baowu e la multinazionale anglo-australiano Rio Tinto, dovrebbe rendere la Guinea il terzo esportatore al mondo di minerali ferrosi.
Intanto, un recente rapporto di AidData ha fatto chiarezza sugli investimenti cinesi nel settore estrattivo. Secondo la ricerca, le banche commerciali e le cosiddette policy bank, insieme a investitori privati e stranieri, hanno emesso prestiti per un valore di quasi 57 miliardi di dollari in 19 paesi a basso e medio reddito per l’estrazione e la lavorazione di rame, cobalto, nichel, litio e terre rare, componenti essenziali per la transizione energetica. Oltre tre quarti dei finanziamenti minerari sono stati stato incanalati attraverso joint venture e veicoli per scopi speciali, in cui il governo ospitante non deteneva un livello significativo della proprietà. Fattore che ha ridotto le passività finanziarie dei paesi mutuatari, ma ha anche limitato il loro accesso a futuri rendimenti finanziari.
La rimonta della Cina nelle infrastrutture della Tanzania
La Tanzania ha firmato un accordo da 2,15 miliardi di dollari con due aziende cinesi per costruire una ferrovia che collegherà il porto di Dar es Salaam a una miniera di nichel nel vicino Burundi. Secondo il ministro dei trasporti della Tanzania Makame Mbarawa, lo scopo principale della linea ferroviaria è quello di facilitare l’esportazione del minerale e aprire il commercio transfrontaliero tra le due nazioni dell’Africa orientale. Sarà però la Banca africana di sviluppo a finanziare la costruzione tramite un prestito agevolato. Per la Cina si tratta di un’importante rimonta: l’ex presidente John Magufuli aveva annullato il processo di gara iniziale per “irregolarità”. Passo falso sfruttato dalla turca Yapi Merkezi, che nel 2017 si è aggiudicata l’appalto per realizzare la Dar es Salaam-Makutupora. Il nuovo progetto conferma l’interesse di Pechino per le infrastrutture di trasporto tanzaniane, come già segnalato con i lavori di riammodernamento della TAZARA di Mao.
Intanto la Kenya Railways Corporation (KRC) assumerà il pieno controllo operativo della Standard Gauge Railway a dicembre 2025, sei mesi dopo la scadenza inizialmente concordata, da un’azienda statale cinese che attualmente gestisce la linea. Questo non assicura la sostenibilità economica del collegamento: Nairobi deve saldare 5 miliardi di dollari di debito contratto nel 2010 con la China Exim Bank per costruire il progetto.
La Cina rafforza la difesa nel Sahel
La Cina ha nominato il suo primo responsabile alla Difesa in Niger. A ricoprire l’incarico è il colonnello maggiore Chen Xuming, che è entrato in servizio all’inizio di questo mese. Il rafforzamento della presenza cinese a Niamey conferma la crescente importanza attribuita da Pechino al settore della sicurezza, soprattutto nella cintura saheliana – soprattutto dopo il ritiro di Francia e Stati Uniti.
Il “modello Pakistan” arriva in Africa
La Cina ha localizzato la produzione di corvette cinesi Type-056 in Algeria. Mentre il paese nordafricano da tempo si rifornisce di equipaggiamento militare cinese – come i droni militari CH-3 e -4 – il coinvolgimento diretto dei cantieri algerini attesta la disponibilità di Pechino a trasferire tecnologia non solo per uso civile. E’ quello informalmente noto come “modello Pakistan”, che da tempo presenta vari gradi di sviluppo e produzione congiunti per piattaforme come l’addestratore K-8 e il caccia JF-17.
Trump approva l’accordo sulle isole Chaogs
Donald Trump pare non disprezzare l’accordo siglato dal Regno Unito con la Repubblica di Maurizio in merito alla restituzione delle isole Chagos, nell’Oceano indiano. Accogliendo ieri a Washington il primo ministro britannico Keir Starmer, The Donald ha definito “non male” l’intesa provvisoria che vedrebbe Londra mantenere il controllo sulla base militare Diego Garcia, utilizzata dagli Usa per varie operazioni, compresa la guerra in Afghanistan. L’accordo è rimasto in bilico a causa del doppio ricambio politico nel paese africano e negli Stati Uniti, dove i repubblicani frenano temendo che restituire la sovranità sull’arcipelago darebbe maggiore potere alla Cina, molto presente in Africa.
La Cina invita l’India a collaborare in Africa
Il 26 febbraio si è tenuto il Japan-India-Africa Business Forum, organizzato dal governo giapponese insieme al Nikkei. Il Global Times non ha gradito il comunicato rilasciato da Nuova Delhi, che comincia esaltando i “valori democratici” e al punto quattro condanna i “modelli di coinvolgimento estrattivi” promettendo di supportare un paradigma diverso incentrato sulla cessione di “competenze e sul trasferimento tecnologico”. Secondo i media indiani, l’India ha fornito oltre 12 miliardi di dollari in crediti agevolati per promuovere la connettività e lo sviluppo delle infrastrutture nel continente. “Di fronte al deficit di sviluppo globale, Cina e India, in quanto i due maggiori paesi in via di sviluppo, dovrebbero dimostrare una maggiore lungimiranza strategica in Africa” – sottolinea l’editoriale – “l’Africa non è un’arena per la rivalità tra grandi potenze, ma piuttosto un oceano blu per la cooperazione e risultati win-win”. Quello della fratellanza Sud-Sud sembra essere diventato un collante importante nei rapporti (non idilliaci) con Nuova Delhi. Il cambio di registro è cominciato con l’incontro di ottobre tra Xi e Modi a margine dei Brics.
A cura di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.