- Razzismo in Cina, intolleranza in Africa
- Lo Zambia e i “prestiti di emergenza”
- Le capriole di Ruto
- Dalla BRI alla GDI
- Le promesse disattese dell’Europa
- Una triangolazione è possibile: il caso etiope
Incastonato tra Zambia, Tanzania e Mozambico, il Malawi si è rivelato l’epicentro di una vera e propria industria dei video messaggi. Clip dal contenuto razzista vendute per una settantina di dollari sui siti cinesi di e-commerce e condivise sui social in caso di matrimoni, prima degli esami e in occasione delle principali festività cinesi. L’inquietante business, che coinvolge anche bambini molto piccoli, è stato scoperchiato quest’estate da un’inchiesta della BBC.
Chaniece Brackeen, social media consultant di origini africane, ha provato a capire il perché di tanto successo. Effettuando un sondaggio su un centinaio di studenti della Shanghai University for Science and Technology, Brackeen ha scoperto diverse cose interessanti. Tanto per cominciare tutti gli intervistati erano a conoscenza della nuova tendenza. Molti hanno affermato di considerare i contenuti “divertenti” e “positivi”. Una percezione giustificata dalla natura del partenariato tra Cina e Africa. Secondo i rispondenti, i rapporti con il continente sono “più stretti” e “più puri” se paragonati alle relazioni con il “mondo occidentale”.
Questo, spiegano gli studenti, è dovuto principalmente a due fattori: la Cina ha “aiutato” e “investito” molto in Africa. Quindi è normale che gli africani vogliano esprimere la propria gratitudine nei confronti dei cinesi. Inoltre, il comune status di “paesi emergenti” pone la Cina e le nazioni africane sullo stesso piano, escludendo che i video possano avere intenti malevoli. Una percezione fortemente influenzata dalla narrativa ufficiale della fratellanza sino-africana che domina la propaganda governativa fin dall’epoca maoista. Oggi più che mai la politica terzomondista del Grande Timoniere riecheggia nella retorica dell’amicizia con il Sud globale rilanciata dal presidente Xi Jinping per controbilanciare la crescente emarginazione della Cina nell’emisfero occidentale. Di riflesso, gli auguri e gli incoraggiamenti degli africani vengono percepiti come messaggi realmente sentiti e sinceri.
Altri intervistati hanno dichiarato di ritenere i video un buon mezzo per “interagire” con popoli lontani mentre le misure anti-Covid rendono ancora quasi impossibile viaggiare all’estero. Le clip sono state persino descritte come un segno dell’imprenditorialità cinese e una buona opportunità di arricchimento per l’Africa.
Il giudizio positivo trova riscontro anche sui social network. Qui, piuttosto, è l’inchiesta della BBC ad essere stata contestata. Sul Twitter cinese Weibo diversi utenti hanno sottolineato come l’emittente britannica sia nota per i suoi servizi anti-cinesi. Qualcun altro ha ipotizzato addirittura che il caso dei video sia stato montato appositamente per sabotare le relazioni sino-africane.(qui per continuare la lettura dell’articolo).
Quello del razzismo è un problema non nuovo ma sempre più evidente nella Cina post-Covid. A generalizzare si sbaglia sempre, va quindi rimarcato come esistano delle virtuose eccezioni. Casi di integrazione sociale che meritano di essere raccontati. Rientra certamente in questa categoria la storia di Rose, 29enne ugandese diventata una influencer su Douyin. La ragazza, dopo essersi sposata con un cinese conosciuto online, si è trasferita in un villaggio del Zhejiang, dove dallo scorso anno si cimenta ai fornelli parlando fluentemente in mandarino.
Continuano invece a far parlare (male) di sé i cinesi in Africa. Nella scorsa puntata avevamo parlato dell’inchiesta a carico della Shaanxi Mining Company in Ghana. Anche oggi restiamo nel paese dell’Africa occidentale, dove Aisha Huang, estradata in Cina nel 2018 dopo essere stata arrestata per aver condotto attività minerarie illegali, è stata catturata nuovamente pochi giorni fa. Il caso ha sollevato un polverone non tanto per la nazionalità dell’arrestata quanto piuttosto per l’incapacità delle autorità locali: rimane un mistero come Miss Huang sia riuscita a ottenere un nuovo documento di identità nonostante le autorità avessero raccolto tutti i suoi dati biometrici. Dalle indagini è emerso addirittura che mentre la donna si trovava agli arresti alcune aziende di sua proprietà hanno continuato a operare in Ghana indisturbate.
Vicende come questa non aiutano chiaramente a migliorare l’immagine della Cina in Africa. Né le iniziative di soft power promosse da Pechino sembrano avere grande efficacia davanti al malcostume degli immigrati cinesi nel continente. Da ultime l’evento “Dialogo con i taikonauti”, organizzato dalla Missione cinese presso l’Unione Africana, dall’Agenzia China Human Spaceflight e dall’Unione Africana. Per la prima volta giovani provenienti da ogni parte dell’Africa hanno potuto interagire da remoto con gli astronauti al momento impegnati nell’ennesima missione spaziale cinese.
Lo Zambia e i “prestiti di emergenza”
Debito, ancora debito. Anche l’ultima settimana è stata contraddistinta dagli interminabili negoziati tra il FMI e lo Zambia. Ne avevamo parlato la scorsa volta. Ci sono aggiornamenti in proposito: il governo di Lusaka ha chiesto ai suoi creditori esterni – inclusa la Cina – un alleggerimento del debito pari a ben 8,4 miliardi di dollari. Somma che equivale al 90% dei pagamenti dovuti ai creditori privati e ufficiali da qui al 2025. La patata bollente è nelle mani della Cina, che da sola reclama la quota maggiore del debito: circa 6 miliardi di dollari, rispetto ai 3 miliardi dovuti dallo Zambia agli obbligazionisti e agli altri prestatori privati.
“Andremo in trattative dettagliate con tutti i creditori, inclusa la Cina, per ridurre il livello di indebitamento e riprendere il servizio del debito”, spiegava la scorsa settimana il ministro delle Finanze zambiano, Situmbeko Muskotwane, aggiungendo che l’accordo da 1,3 miliardi di dollari concluso recentemente con il Fmi include “l’approvazione di una nuova legge che renderà più difficile per qualsiasi governo chiedere prestiti in modo sconsiderato”. Chiaro riferimento alla “trappola del debito” cinese che trappola non è considerato il mea culpa delle stesse capitali africane.
La posizione di Pechino non è facile. A preoccupare non sono tanto i 6 miliardi di dollari (bruscolini per istituzioni finanziarie del calibro di ICBC e Bank of China). Accettando le richieste di Lusaka, la Cina creerebbe un precedente per altri paesi in via di sviluppo altamente indebitati, come Sri Lanka e Laos. “È probabile che Pechino soddisfi Lusaka chiudendo un occhio su alcuni prestiti agevolati e riprogrammando i rimborsi per i prestiti commerciali” prevede Tim Zajontz, ricercatore del Center for International and Comparative Politics presso la Stellenbosch University. Il SCMP sottolinea come a complicare il quadro si aggiunga la natura sfuggente delle banche cinese: di solito Pechino tratta la China Development Bank come una banca commerciale, esonerandola dagli accordi di ristrutturazione dei debiti, che sono perlopiù gestiti dalle cosiddette policy bank, come Exim Bank.
La storia è sempre la stessa. Lo dicevamo l’altra volta: la Cina preferisce rinegoziare termini e scadenze piuttosto che rinunciare a una parte di quanto dovutole. Fanno eccezione i prestiti a interessi zero, che però sono una minima frazione del totale. Finalmente sappiamo esattamente quanto. Secondo un recente studio della Boston University, i 23 prestiti cancellati a fine agosto ammonterebbero a 610 milioni di dollari, appena l’1% del credito concesso al continente. Per quanto l’importo sia contenuto, i prestiti senza interessi hanno una funzione importante: Pechino li eroga e cancella come strumento diplomatico, soprattutto da quando l’agenzia responsabile – la China International Development Cooperation Agency (CIDCA) – ha preso il posto del dipartimento per i prestiti esteri del Ministero del Commercio.
Secondo un nuovo studio di AidData, negli ultimi anni il gigante asiatico ha elargito segretamente decine di miliardi di dollari in “prestiti di emergenza” a paesi con situazioni finanziarie critiche. Solo Pakistan, Sri Lanka e Argentina, tra i principali beneficiari, hanno ricevuto circa 32,83 miliardi di dollari dal 2017 a oggi. Si tratta per la maggior parte di credito fornito per evitare default su prestiti infrastrutturali. I ricercatori ritengono che la fetta più consistente sia associata ai progetti lanciati nell’ambito della Belt and Road. Il Financial Times, che ha raccolto opinioni di vari esperti, ritiene che l’intervento dei creditori cinesi finisca per alimentare un circolo perverso: fornendo prestiti su prestiti senza chiedere in cambio ai paesi mutuatari un miglioramento delle politiche economiche (come invece fa il FMI) si finisce per posticipare la crisi anziché risolverla. Non facilita la segretezza delle condizioni imposte dai prestatori cinesi. A quanto ammonta davvero il debito africano nessuno lo sa. Su Twitter, Brad Setser, esperto del Council on Foreign Relations, sottolinea tuttavia come ultimamente Pechino “stia agendo in maniera più cauta, probabilmente perché finora i pacchetti di salvataggio non hanno funzionato”.
Le capriole di Ruto
Terminato con lo Zambia, la Cina avrà ancora parecchio da fare in Africa. Business Daily Africa sottolinea come le riserve in valuta estera del Kenya siano scese a 7,38 miliardi di dollari nel mese di agosto a causa del rimborso dei debiti dovuti ai prestatori commerciali e bilaterali (inclusa la Cina). Questo significa che il paese ha a malapena abbastanza depositi in moneta straniera per coprire quattro mesi di importazioni.
Cosa farà l’agguerrito William Ruto, il nuovo presidente keniota che in campagna elettorale aveva promesso tolleranza zero contro l’immigrazione “illegale” cinese e i prestiti predatori di Pechino? Assunto l’incarico, come prevedibile, Ruto ha già fatto marcia indietro. Incontrando il nuovo rappresentante cinese per l’Africa, il neo-presidente ha dichiarato di “apprezzare la solida amicizia” tra il Kenya e la Cina”. Per Ruto, “infrastrutture, agricoltura, istruzione” sono i settori su cui puntare di più. Nessuna menzione per ora alla necessità di rendere pubbliche le condizioni del controverso accordo per la costruzione della ferrovia Mombasa-Nairobi costata 7 miliardi di dollari – accordo che la Cina insiste sia un “segreto commerciale” in pieno rispetto delle consuetudini internazionali.
Controversa lo è perché, nonostante pò pò di studi attestino il contrario, c’è chi anche in Kenya continua a temere che – in caso Nairobi non riesca a onorare i propri debiti – i creditori cinesi si rifaranno delle perdite espropriando il porto di Mombasa. Per il momento il presidente si è limitato a riportare le attività di sdoganamento e logistica dal “porto a secco” di Naivasha a Mombasa con l’intendo di creare posti di lavoro nello scalo marittimo. Secondo gli esperti la decisione, tuttavia, potrebbe compromettere le entrate della ferrovia cinese rendendo così più difficoltoso il rimborso dei 4,5 miliardi presi in prestito: proprio al fine di assicurare la sostenibilità economica del progetto, il predecessore Uhuru Kenyatta aveva reso obbligatorio l’utilizzo della tratta ferroviaria per il trasporto di merci nonostante la predilezione dei kenioti per la viabilità su gomma.
Dalla BRI alla GDI
Storie così hanno gravemente compromesso la reputazione della Belt and Road. Ormai piuttosto chiaramente, la nuova via della seta è stata retrocessa nella lista delle priorità di Pechino. Attenzione però perché questo non vuol dire che sia sparita del tutto. Xi è tornato a parlarne quest’estate mentre si trovava in Xinjiang. Segno di come il progetto sia ancora rilevante per lo sviluppo del Far West cinesi nell’ottica di una proiezione commerciale e infrastrutturale verso i mercati europei. Contestualmente tuttavia, l’isolamento sullo scacchiere occidentale ha spinto la Cina a promuovere iniziative complementari che strizzano l’occhio al Sud del mondo. Prima tra tutte la Global Development Initiative (GDI), nuovo mantra della diplomazia mandarina. Sia ben inteso: l’una non esclude l’altra. Come affermato dal ministro degli Esteri Wang Yi, GDI e BRI sono “motori gemelli” pensati per migliorare la cooperazione nelle aree tradizionali e promuovere nuovi punti importanti”. La GDI “formerà sinergie con altre iniziative tra cui la Belt and Road Initiative, l’Agenda 2063 dell’Unione africana e la Nuova partnership per lo sviluppo dell’Africa”.
Volendo semplificare, la BRI, richiamando le antiche rotte commerciali verso Ovest, ambiva a corteggiare le economie occidentali con una grande visione sinocentrica. La GDI invece – secondo il Centro di ricerca sullo sviluppo del Consiglio di Stato cinese – “affronta pressanti sfide allo sviluppo come la riduzione della povertà, la sicurezza alimentare, il controllo della pandemia e i vaccini e crea le precondizioni per una pronta guarigione post-pandemia”. In questo caso, chiaramente i principali interlocutori sono l’Africa e i paesi emergenti.
Le promesse disattese dell’Europa
Nell’ultima puntata di “Africa rossa” avevamo parlato della cosiddetta “nuova spartizione africana”, termine abusato per descrivere l’interesse convergente delle ex potenze colonialiste – Francia in primis – e dei nuovi protagonisti asiatici, soprattutto Cina e Giappone. Questa settimana il South China Morning Post ha sintetizzato piuttosto bene il motivo per cui – nonostante le numerose iniziative europee (dalla Global Gateway alla più recente Partnership for Global Infrastructure and Investment), la Cina continua ad essere la vera protagonista in Africa. “Delusione”: questo è il sentimento che prevale nel continente dopo che i leader europei hanno dato forfait all’’African Adaptation Summit, tenutosi a Rotterdam. All’appuntamento il primo ministro olandese Mark Rutte era l’unico presente. E’ la seconda volta che le cancellerie europee disattendono le aspettative dei partner africani. Era già successo a febbraio, in occasione dell’ UE-Africa Summit, quando circa 40 leader africani confluirono a Bruxelles per trovare ad accoglierli solo il primo ministro belga Alexander de Croo. Nessuno dei big europei si presentò.
A tal proposito, la stampa cinese non ha mancato di sottolineare come “decenni di promesse mancate” abbiano ormai compromesso la credibilità dell’Occidente. Esemplare è, secondo il Global Times, la posticipazione al 2023 dei “100 miliardi di dollari all’anno promessi [ nel 2019 alla COP15 di Copenhagen] per aiutare i paesi più poveri ad affrontare il cambiamento climatico, con tre anni di ritardo e ancora purtroppo al di sotto di quanto sarebbe realmente necessario.”
Quello del climate change è un tema su cui la Cina non risparmia paternali. Non solo perché può puntare il dito contro i danni ambientali provocati per decenni dalle economie sviluppate. Senza nemmeno bisogno di argomentare, parlano i successi ottenuti in patria con la campagna contro l’inquinamento. I cieli di Pechino, un tempo grigi, sono tornati blu.
Quando però si prendono in esame i finanziamenti cinesi all’estero è tutta un’altra storia. Come segnala il China Global South Project, spesso la Cina ostenta il proprio contributo economico nelle rinnovabili africane facendo un uso improprio del termine “investimento” per indicare il coinvolgimento di aziende cinesi e la concessione di prestiti garantiti che non prevedono una partecipazione azionaria nei progetti finanziati. Quindi presuppongono rischi economici marginali. Una sottigliezza lessicale, certo, che però ci ricorda il pericolo costante di scivolare in una narrazione semplicistica.
Una triangolazione è possibile: il caso etiope
Quando si parla però di competizione tra Cina e potenze occidentali ci si dimentica spesso una precisazione: le rivalità non impediscono la collaborazione. Da circa vent’anni il gigante asiatico porta avanti progetti industriali in tandem con la Germania. La cooperazione nei paesi terzi era uno dei punti più attraenti del MoU sulla Belt and Road siglato dal governo Conte nel 2019. Cosa ne è stato? Personalmente, non ho risposta. In compenso pochi giorni fa Etiopia, Cina e Germania hanno rinnovato l’impegno a sostenere la collaborazione triangolare nell’ambito della conferenza internazionale sugli investimenti sostenibili nel settore tessile. Come spiegato dall’ambasciatore Zhao Zhiyuan, la Cina ha investito nell’industria locale circa 450 milioni di dollari. Oltre 30 aziende tessili cinesi operano nel paese.
Per chi volesse saperne di più, nel mio libro “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” racconto come il gigante asiatico è riuscito a posizionarsi nel manifatturiero etiope:
Come spiega Deborah Brautigam in “The Dragon’s Gift”, generando un effetto spillover, i progetti industriali cinesi sono serviti da palestra per i partner locali che, una volta accumulata esperienza, si sono messi in proprio. Lo chiamano il “modello delle oche volanti”. Nato in Giappone nel momento di massima espressione delle “Tigri asiatiche”, prevede che un paese sviluppato possa diffondere le sue skill a paesi più arretrati permettendo loro di creare una propria area di mercato. In alcuni casi ha funzionato. Prendiamo l’Etiopia: dopo le controverse elezioni “democratiche” del 2005, il presidente Meles Zenawi, grande estimatore dell’economia statalista cinese, ha avviato una politica di “go east” tesa a compensare il temporaneo isolamento dall’Occidente. L’Etiopia è un’indiscussa storia di successo per gli investimenti cinesi nella produzione africana.
Di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.