L’11 dicembre Etiopia e Somalia hanno siglato un accordo per ridurre le tensioni innescate dalla controversa intesa di Addis Abeba con il Somaliland per l’accesso al porto di Berbera sul Mar Rosso. Cosa c’entra la Cina? Nulla, appunto. Nonostante il crescente interesse di Pechino per il Corno d’Africa, la posizione cinese continua ad essere quella del disimpegno dalle crisi locali. Vedremo se l’arrivo di Donald Trump cambierà gli equilibri geopolitici nel continente. Prima ancora del rimpasto alla Casa Bianca, gli Stati Uniti vedono già potenziali sviluppi a loro sfavore dopo il recente cambio politico nella Repubblica di Mauritius. Di questo e molto altro nell’ultima puntata di Africa rossa, la rubrica a cura di Alessandra Colarizi.
- La Cina, mediatrice col Corno
- Via Biden, dentro Trump
- Lo Zambia “ha pagato per sbaglio” alla Cina 82 milioni di dollari
- Il tortuoso percorso dell’export africano fino allo Hunan
- Un nuovo ordine mondiale
- Simposi e basi militari (reali e presunte)
- Inversione a U di Mauritius sulle isole Chagos
- Temu prima app in Nigeria
- L’Africa nel mirino delle truffe cinesi
L’11 dicembre Etiopia e Somalia hanno siglato un accordo per ridurre le tensioni innescate dalla controversa intesa di Addis Abeba con il Somaliland per l’accesso al porto di Berbera sul Mar Rosso, considerata dal governo somalo una violazione della propria sovranità. La mediazione è stata condotta dalla Turchia che, incontrando separatamente i rappresentanti di entrambi i paesi, è riuscita a creare un terreno comune. Primo passo di un “lungo processo” che richiederà ulteriori sforzi per consolidare la fiducia reciproca.
Secondo fonti di Al-Jazeera, l’accordo raggiunto prevede il congelamento temporaneo delle attività legate all’accordo sul porto di Berbera, mentre entrambe le parti lavoreranno a una soluzione definitiva tesa a garantire la cooperazione economica senza compromettere la sovranità della Somalia. Inoltre, è stata concordata la formazione di un comitato congiunto per gestire eventuali future controversie territoriali o economiche.
Con l’intesa è stato sventato un conflitto regionale potenzialmente molto più ampio. Tale sarebbe stato nel caso di un temuto intervento dell’Egitto a sostegno della Somalia. Eventualità non troppo remota considerate le frizioni tra Il Cairo e l’Etiopia in merito alla costruzione della “Grande diga del rinascimento etiope”. Cosa c’entra la Cina? Niente, appunto. Dopo l’accordo di pace nel Tigrè, quello tra Addis Abeba e Mogadiscio è il secondo negoziato condotto nel Corno d’Africa senza il coinvolgimento di Pechino. Il tutto nonostante dal 2022 il governo cinese abbia organizzato ben due conferenze di pace per la regione del Corno. Viene da chiedersi in concreto a cosa serva la Global Security Initiative, lanciata per “eliminare le cause profonde dei conflitti internazionali” e portare “pace e sviluppo durevoli nel mondo”.
Come spiegato su queste colonne, il coinvolgimento della Cina nella sicurezza del continente è oggettivamente aumentata in termini di forniture militari e attività di formazione per il personale africano. Ma quando si tratta di mediare Pechino preferisce ancora delegare ad altri, a meno che non siano direttamente minacciati gli interessi cinesi. Sfilarsi dall’impiccio sarà però sempre più difficile: il peso politico del gigante asiatico aumenta e così la sua esposizione ai numerosi contenziosi africani, ancora di più dopo l’ingresso dei due “rivali” Egitto ed Etiopia nei BRICS. Nel caso del porto di Barbera peraltro un intervento della Cina non sarebbe parso troppo strano considerati i rapporti sempre più stretti tra il Somaliland e Taiwan, entrambi in cerca di un riconoscimento internazionale. In questi giorni l’inviato cinese per il Corno d’Africa ha ribadito il sostegno di Pechino a Mogadiscio.
A complicare la situazione ci penserà Trump. Per ora sono solo ipotesi, ma non è escluso che il nuovo presidente decida di istituire rapporti diplomatici ufficiali con Hargheisa. per motivi economici e geopolitici: il Somaliland affaccia sullo stretto di Bab el-Mandeb, tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, una posizione considerata strategica non solo per il commercio globale. Permetterebbe agli Stati Uniti anche di diversificare le operazioni militari dal porto di Gibuti, che dopo l’apertura della base cinese è ormai considerato “troppo affollato”.
Via Biden, dentro Trump
Proprio la sicurezza – insieme al mining – potrebbe diventare uno dei due pilastri della politica estera di Trump 2.0 per l’Africa. Ne è convinto Cameron Hudson, senior fellow del programma Africa Program presso il Center for Strategic and International Studies (CSIS) che in un’intervista a The China Global South Project prevede che sarà più “chirurgica” e meno dispersiva rispetto a quella di Biden. Mentre la Cina sarà una competizione cruciale, la politica americana potrebbe diventare meno intrusiva nelle questioni interne africane, come i diritti umani, e più focalizzata su temi quali la sicurezza e le risorse minerarie.
Artefice di questo riposizionamento strategico sarà il futuro segretario di Stato Marco Rubio, uno strenuo difensore della democrazia. Secondo Hudson, tuttavia, la sua visione si concentrerà più sulla tutela degli interessi americani attraverso una politica estera pragmatica. Quindi non tanto sulla promozione di diritti umani universali in Africa, quanto piuttosto sul sostegno a governi che non sono apertamente ostili agli interessi americani, ma nemmeno particolarmente liberali. Questa inclinazione al compromesso potrebbe avere ripercussioni anche sulla gestione delle materie prime. Per l’analista del CSIS, nonostante la tendenza globale verso una riduzione delle forniture estere, Trump potrebbe scegliere di acquistare minerali critici direttamente dalla Cina in modo da ridurre i costi e le difficoltà legate all’estrazione e alla raffinazione in loco.
Sebbene non ancora in questi termini, la questione delle materie prime è stata tra i dossier al centro della recente visita di Biden in Angola. Sì, la famosa visita africana, rimandata più e più volte, alla fine c’è stata. Proprio in extremis e adombrata dalla minacciosa vittoria elettorale di Trump. Africa Rivista ha chiesto un bilancio all’avvocato Zola Ferreira Bambi, responsabile dell’Osservatorio per la coesione sociale e la giustizia, che ha potuto assistere al discorso di Biden del 3 dicembre davanti al Museo della Schiavitù di Luanda.
“Nessuno garantisce che Trump rispetterà gli impegni presi da Biden. […] L’opinione pubblica angolana, in generale, ha considerato la visita di Biden come una semplice cortesia. E ciò non ha avuto l’impatto previsto sul contesto politico, economico e sociale. Le maggiori preoccupazioni della società non rientravano nell’agenda di Biden o di Lourenço.”
Per i due capi di Stato la priorità era piuttosto definire l’impegno americano nel Corridoio di Lobito, pensato appunto per facilitare il trasporto di quanto estratto in Zambia e nella Repubblica democratica del Congo verso l’Atlantico. Il presidente uscente ha promesso altri 600 milioni di dollari, portando a 4 miliardi l’investimento complessivo nel progetto. Per quanto l’infrastruttura ferroviaria non sarà preclusa a nessun paese (nemmeno alla Cina), è evidente che per ora l’amministrazione Biden la considera una pedina nel risiko africano con Pechino. In Cina lo sanno bene. “Dato che contenere Cina e Russia e ottenere minerali essenziali saranno gli obiettivi principali della politica africana di Trump, il ‘corridoio di Lobito’ soddisfa entrambe le condizioni”, scriveva di recente Zhong Zhuorui, ricercatore del CICIR, istituto affiliato al ministero della Sicurezza dello Stato cinese.
Prima della visita in Angola, funzionari americani lo hanno detto chiaramente: “Non è una questione di più o meno, è una questione di (essere) diversi. Altri (paesi) arrivano con assegni molto consistenti, costruiscono un sacco di cose, ma questo con alti tassi di interesse sul debito… e non comporta nessun impegno nei confronti della loro società”. Non serve specificare a quale paese si riferissero. È il solito luogo comune dei prestiti predatori erogati dalla Cina. Facilmente smontabile anche solo verificando i dati sui tassi di interesse imposti in Angola dalle banche statali cinesi, che la Banca Mondiale stima al 4,334% laddove i titoli di Stato angolani quotati a Francoforte stanno al 9,125%.
Chiariamo: quello dei debiti africani resta un problema. Dal 2002 a oggi, Luanda ha preso in prestito 45 miliardi di dollari dalla Cina, pari a un terzo di tutti i prestiti cinesi nel continente. 17 miliardi di dollari sono ancora da restituire, ma gran parte del debito è stato ristrutturato all’inizio di quest’anno dopo il crollo del prezzo del petrolio. Prima della visita di Biden Lourenço si è espresso sulla questione in un’intervista al New York Times:
“Siamo consapevoli che avere quel debito legato a una garanzia come il petrolio era svantaggioso per il paese. Ma a quel tempo abbiamo accettato quella condizione. E per questo abbiamo dovuto rispettare la nostra parola. Ed è quello che stiamo continuando a fare. Stiamo saldando il debito. Se mi chiedeste ora se prenderei un nuovo prestito alle stesse condizioni, direi di no”.
Interessante anche il commento di Lourenço sul Corridoio di Lobito:
“Oggi, quando esportiamo i minerali, li esportiamo nell’interesse dei paesi africani, a differenza di quanto accadeva nel periodo coloniale quando venivano estratti senza il consenso delle popolazioni indigene. Pensiamo che la ferrovia non servirà solo come mezzo di transito dei minerali. Stiamo anche costruendo impianti agricoli e industriali lungo il corridoio di Lobito”.
Lo Zambia “ha pagato per sbaglio” alla Cina 82 milioni di dollari
L’Angola non è l’unico paese africano schiacciato dai debiti, né l’unico ad aver accettato modalità di rimborso discutibili. Alcuni giorni fa la questione è uscita nuovamente allo scoperto quando la compagnia energetica dello Zambia, Zesco Ltd., ha trasferito alla Cina “per errore” 82 milioni di dollari. La somma era contenuta in un conto speciale che Zesco aveva istituito per raccogliere i ricavi derivanti dalla vendita di elettricità e che sarebbero serviti a ricompensare le aziende cinesi coinvolte nel finanziamento di una centrale. Ma solo una volta terminata la ristrutturazione del debito, lungo e travagliato processo cominciato nel 2020, quando lo Zambia è diventato il primo paese africano a dichiarare default durante la pandemia. Mentre il concetto di “debt trap” implica una volontarietà non supportata dai fatti, il caso Zesco rispecchia la complessità dei cosiddetti “conti garantiti”, progetti. Il governo ha proposto che il pagamento errato venga considerato come un anticipo sugli interessi accumulati dal 2023.
Il tortuoso percorso dell’export africano fino allo Hunan
Da dicembre 33 dei “Paesi meno sviluppati” (LDC) dell’Africa sono in grado di esportare in Cina merci esenti da dazi. La nuova politica, annunciata a settembre durante il forum Cina-Africa, conferma gli impegni presi da Pechino nel 2021 per promuovere le importazioni dal continente. Se però sia effettivamente la soluzione giusta è ancora da provare. Secondo uno studio di Development Reimagined, i paesi africani che dal 2005 hanno beneficiato del regime a tariffe zero hanno esportato prodotti per un valore inferiore (578 miliardi di dollari) ai paesi che hanno continuato a commerciare con i dazi (771 miliardi di dollari). Segno che sono altre le misure a incidere veramente sugli scambi con il continente, ancora troppo concentrati sui materiali grezzi anziché sui prodotti finiti.
Ciononostante, la crescita complessiva delle transazioni bilaterali sta spingendo i principali istituti di credito africani ad aprire filiali in varie metropoli cinesi, anche in risposta alla spinta del governo cinese per un maggiore utilizzo delle valute locali negli scambi.
Lo scorso anno gli scambi commerciali tra Cina e Africa hanno superato i 280 miliardi di dollari. Cifra modesta se rapportata ai 740 miliardi di euro scambiati con l’Ue, ma un bel salto considerato che le transazioni con il continente valevano solo 11,67 miliardi del 2000. L’incremento è stato reso possibile anche grazie all’apertura di nuove tratte commerciali. La provincia cinese dello Hunan, seppur priva di sbocchi sul mare, si è affermata uno snodo centrale per gli scambi con l’Africa. Soprattutto da quando nel 2021 è stato lanciato un collegamento terra-mare che prevede il trasporto di merci via treno dallo Hunan ai porti di Guangzhou, nella Cina meridionale, da cui poi vengono caricate su navi mercantili dirette verso destinazioni africane. Grazie a procedure doganali e di trasporto semplificate, il tempo di spedizione tra la Repubblica popolare e il continente è stato ridotto di 15 giorni. In Africa, la rotta logistica copre quasi una decina di scali portuali e 20 infrastrutture terrestri tra strade e ferrovie verso destinazioni interne senza affaccio sul mare.
Chiaramente i benefici del nuovo corridoio commerciale sono a doppio senso. Specialmente in un momento che vede la Cina doversi disfare della sovraproduzione industriale invenduta in patria. Con circa un milione di veicoli venduti ogni anno (di cui metà in Sudafrica), il mercato automobilistico africano è ancora piuttosto piccolo. Ma, con la chiusura di Ue e Stati Uniti, sta diventando sempre più rilevante per i grandi marchi cinesi in cerca di alternative. Il fatto è che, oltre ad essere piccolo, non è un mercato facile. Le preferenze degli acquirenti in Ghana sono molto diverse da quelle in Sudafrica, Marocco e Mozambico. Si aggiungono le difficoltà legate alle normative doganali, che cambiano di paese in paese. Senza contare l’iniziale diffidenza dei consumatori africani, abituati alle macchine giapponesi ed europee. Per aggirare i molti ostacoli le aziende cinesi si stanno affidando alle cosiddette esportazioni informali, molto diffuse in Africa perché presentano minori barriere normative. In particolare, le auto elettriche (EV) cinesi stanno riscuotendo un certo successo per il loro rapporto qualità-prezzo, e la disponibilità di modelli progettati per affrontare le difficili condizioni stradali del continente. The China Global South Project ha intervistato Jimmy Ho, cofondatore di Autoworld, una società cinese che promuove l’export automobilistico.
Parlando di EV e Africa non si può non parlare di cobalto, uno degli ingredienti principali delle batterie. CGSP ha consultato Vincent Zhou del colosso minerario cinese CMOC per capire quale sarà il futuro dei progetti estrattivi in Congo, considerato che ormai il settore si sta riconvertendo al litio:
CGSP: Qual è il futuro di CMOC nella RDC? Il gruppo sta valutando di espandere le sue operazioni oltre il rame, il cobalto e la regione del Katanga?
VINCENT: La strategia di CMOC nella RDC rimane focalizzata sul rame, con piani per l’espansione della capacità. Sono in corso esplorazioni preliminari per due grandi progetti: l’estensione occidentale di Tenke Fungurume Mining (TFM) e la fase 2 del progetto Kisanfu Mining (KFM). Oltre alle operazioni di rame e cobalto, CMOC sta investendo in iniziative di energia rinnovabile come il progetto idroelettrico Nzilo II da 200 MW e un sistema energetico ibrido solare-idroelettrico nella provincia di Lualaba, che genererà 600 MW una volta completato. Questi progetti mirano a fornire energia pulita per le attività minerarie e le comunità locali, rispondendo alle esigenze energetiche critiche della regione.
Con l’aumento degli investimenti nel settore aumentano anche i casi di violazioni e attività clandestine. Nel giro di pochi giorni la Namibia ha avviato un’indagine a carico della la Xinfeng Investments (Pty) Ltd. per presunte attività minerarie illegali a Erongo, regione ricca di riserve di litio, mentre nella RDC diciassette cittadini cinesi sono stati arrestati per attività minerarie senza licenza nei giacimenti di oro al confine con il Ruanda. Secondo le Ong ambientaliste, in Congo le operazioni estrattive cinesi hanno negli anni ridotto i confini della la riserva naturale di Okapi, un sito patrimonio dell’umanità in via di estinzione.
Non scordiamoci però che il coinvolgimento della Cina nella transizione energetica dell’Africa non è limitata alla sottrazione delle risorse. Lo scorso mese la società statale PowerChina ha avviato la costruzione di una centrale geotermica da 35 megawatt nel cratere Menengai, in Kenya. Il progetto renderà il paese africano – il primo nel continente a sfruttare questo tipo di risorsa energetica – il quinto per produzione geotermica.
Sempre in Kenya, a 14 chilometri dal centro di Garissa, la Cina ha finanziato quella che a oggi viene considerata la più grande centrale solare dell’Africa orientale e centrale. Finanziato con un prestito di 136 milioni di dollari dalla China Export-Import Bank, l’impianto rientra nei piani di Nairobi per fare affidamento al 100% sull’energia rinnovabile entro il 2030. Non tutto però sta procedendo come da programma. I villaggi nei paraggi, sebbene abbiano dovuto cedere le loro terre per fare spazio alla centrale, non hanno accesso diretto all’energia prodotta. Il costo dell’elettricità è aumentato, rendendo difficile per molti fare fronte alle bollette. Come suggeriscono li esperti, il Kenya potrebbe trarre maggior beneficio dagli investimenti esteri patteggiando condizioni più vantaggiose per l’occupazione locale e il trasferimento di competenze, come avvenuto in Benin e altri paesi africani.
Temu prima app in Nigeria
Il rivenditore online cinese Temu è ora l’app più scaricata sugli store Android e Apple in Nigeria grazie a una massiccia campagna di marketing che ha inondato il paese dell’Africa occidentale con promozioni per prodotti a basso costo importati direttamente dalla Cina. L’espansione di Temu in Africa fa parte di una più ampia offensiva dei giganti dell’e-commerce cinesi nel Sud del mondo per compensare le restrizioni ai mercati occidentali. Ma la questione delle esportazioni cinesi a prezzi stracciati non è meno controversa in Africa di quanto lo sia alle nostre latitudini. Potrebbe diventarlo sempre di più mano a mano che cominciano a chiudersi le porte di vari paesi – come il Vietnam che ha appena bandito Temu.
La strategia cinese in Medio Oriente passa per l’Egitto
Cina ed Egitto lavoreranno insieme per promuovere la pace e la stabilità in Medio Oriente, a partire dalla Siria. La politica internazionale si è fatta largo nel quarto dialogo strategico presieduto la scorsa settimana dai rispettivi ministri degli Esteri. Come detto spesso nelle precedenti puntate, dall’inizio della crisi a Gaza Il Cairo è diventato un interlocutore di primo piano per Pechino, che vede nel Nord Africa una sponda per estendere la propria influenza diplomatica nella Mezzaluna. Dopo aver recentemente visitato il Marocco, si vocifera che all’inizio dell’anno prossimo Xi Jinping potrebbe recarsi personalmente proprio in Egitto. Secondo Jonathan Fulton, curatore della newsletter Cina-MENA, l’interesse è ricambiato da Al-Sisi, che negli ultimi anni ha attribuito alla Repubblica popolare un peso diplomatico senza precedenti.
In virtù del suo limitato coinvolgimento nelle questioni che riguardano la sicurezza, per ora Pechino non sembra risentire eccessivamente della caduta di Assad in Siria. Almeno non quanto la Russia che, vedendo minacciati gli avamposti militari di Tartus e Khmeimim sta già iniziando a indirizzare altrove le sue forze. La destinazione privilegiata è la Libia, negli hub che rientrano nel territorio del Khalifa Haftar e fanno già oggi da tramite sempre più robusto con la regione subsahariana. L’analisi di Alberto Magnani sul Sole24Ore.
Un nuovo ordine mondiale
Il Global Times ha appena rilasciato l’esito di un un sondaggio condotto a novembre in 16 lingue su vari temi, dal rapporto Cina-Usa alla guerra in Ucraina. Tra i vari risultati emerge che tra i 17.000 intervistati il 36% considera lo sviluppo della Cina una “maggiore opportunità” per il proprio paese. La percentuale sale al 70% in Kenya, mentre Sudafrica ed Egitto sono al secondo posto, entrambi con un giudizio positivo di circa il 60%. Certo, la fonte non è tra le più attendibili, ma i numeri sono assolutamente in linea con i risultati di altre ricerche analoghe. Secondo l’Asia Society, persino a eSwatini, l’unico stato africano a non intrattenere relazioni formali con Pechino, la popolazione ha un’opinione complessivamente positiva della superpotenza asiatica.
La Ichikowitz Family Foundation, per esempio, ha recentemente intervistato giovani in sedici paesi africani registrando un tasso di approvazione per la Cina del 82%, superiore a quello degli Stati Uniti (79%) e dell’Unione Europea (76%). Tra le varie cose, il sondaggio rivela un forte attaccamento alla democrazia come modello di governance (69%), ma alla domanda se la democrazia in stile occidentale sia adatta all’Africa, il 60% dei rispondenti ha espresso disaccordo, affermando invece che “i paesi africani devono creare proprie strutture e sistemi democratici”.
Chiaramente la Cina sta beneficiando dei passi falsi commessi dagli Stati Uniti e dai paesi europei. Ma, come sottolinea Christian-Géraud Neema del Carnegie, non c’è certezza che il nuovo ordine internazionale, a cui sta lavorando Pechino, sarà più equo o più vantaggioso per l’Africa. Per il semplice fatto che è pensato principalmente per assecondare gli interessi cinesi. Basti pensare che anche il concetto di “modernizzazione” ormai ha assunto un’accezione politica più che economica, dal momento che implica la volontà di proporre un modello diverso (ovviamente migliore) da quello occidentale.
Gli investimenti, certo. Ma non scordiamoci che la Cina in Africa ha un altro asso nella manica da giocare: la cooperazione con i partiti locali al potere da decenni, sostenuti durante le guerre di liberazione dal colonialismo. D’altronde, a rimarcare l’importanza della questione, governance e formazione politica sono stati inseriti nei primi punti del piano d’azione annunciato da Xi Jinping all’ultimo FOCAC. Da tempo gli esperti si interrogano sulla reale funzionalità di questo tipo di sinergie meno abbaglianti rispetto agli investimenti cinesi.
Facendo un po’ di chiarezza, il progetto Megatrends Afrika ha rintracciato alcuni trend, il Pcc ha mantenuto stretti legami con i principali partiti al potere nell’Africa meridionale e in alcuni paesi dell’Africa orientale, mentre nel Nord Africa ha privilegiato un approccio più diversificato coinvolgendo maggiormente anche le forze d’opposizione. È una tattica che funziona? Secondo lo studio, sì quando il partito dominante ha stretti legami con il settore imprenditoriale. In questi casi i contatti politici aiutano le aziende cinesi a districarsi all’interno di quadri normativi deboli e ad assicurarsi un accesso privilegiato alle risorse.
Simposi e basi militari, reali e presunte
Dal 6 al 9 dicembre la città di Shanghai ha ospitato un simposio sulla sicurezza marittima e la salvaguardia della pace e della stabilità nel golfo di Guinea. Il forum, al quale hanno partecipato le forze armate marittime di 18 paesi della regione, è servito a discutere temi come la cooperazione marittima tra Cina e Africa nella guerra alla pirateria e alla pesca illegale. La regione, con affaccio su importanti rotte commerciali, riveste un ruolo cruciale per le esportazioni di petrolio verso la Cina. E poi non vanno sottovalutati i potenziali risolviti militari nell’ottica di una nuova base navale. Secondo varie indiscrezioni, da alcuni anni Pechino starebbe cercando di creare un avamposto nella Guinea Equatoriale per proiettare la propria influenza nell’Atlantico.
Inversione a U di Mauritius sulle isole Chagos
Se la base cinese per ora esiste solo nei peggiori incubi di Washington, in Africa le struttura militare americana abbondano e sono anche al centro di delicati contenziosi. L’accordo tra Regno Unito e Mauritius sulla sovranità delle Isole Chagos rischia di saltare dopo che il nuovo premier mauriziano, Navin Ramgoolam, ha chiesto di rinegoziarne i termini. “Le proposte preliminari non produrrebbero i benefici che la nostra nazione potrebbe aspettarsi”, ha dichiarato Ramgoolam, riferendosi al trattato che prevede la cessione da parte di Londra della sovranità sull’arcipelago, ma il mantenimento della base militare strategica Usa ubicata nell’atollo di Diego Garcia. Non è chiaro quali siano le condizioni ritenute svantaggiose ma il mese scorso il ministro dell’Agroindustria e della Pesca, Arvin Boolell, aveva criticato il contratto di locazione, sostenendo che la reale durata sia di 200 anni anziché gli ufficiali 99.
L’Africa nel mirino delle truffe cinesi
148 cittadini cinesi sono stati arrestati in Nigeria nell’ambito di un giro di vite sulle truffe online. In tutto 792 persone asiatiche sono state detenute per aver partecipato alla frode, che consisteva nel sedurre online le vittime per poi indurle a inviare denaro per falsi investimenti in criptovalute. Un caso simile era stato scoperchiato in Zambia, anche lì la retata era terminata con l’arresto di 77 cinesi. Che l’Africa stia scontando la stretta nel Sud-Est asiatico, fino a poco fa meta prediletta delle scam cinesi?
A cura di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.