Per il trentacinquesimo anno di fila, il ministro degli Esteri cinese ha scelto l’Africa per inaugurare la stagione diplomatica del nuovo anno. Una tradizione lanciata da Qian Qichen nel 1991, a cui Pechino non ha derogato nemmeno durante la pandemia da Covid-19, confermando un impegno costante e duraturo. Non come l’Occidente, che dimostrando un interesse ondivago, fatica ancora a mantenere le solite vecchie promesse. Il paragone non è stato esplicitato ma è piuttosto chiaro: durante la trasferta, Wang Yi ha parlato dei rapporti Cina-Africa definendoli il “simbolo dell’ascesa del Sud globale” e di un ordine mondiale più giusto. Ha inoltre rimarcato come Pechino non interferirà lasciando che “l’Africa risolva i problemi africani alla maniera africana” e “si dimostrerà sempre l’amico più fidato dei fratelli e delle sorelle africani”.
Per quanto una ricorrenza ormai quasi obbligata, il tour di quest’anno doveva servire a uno scopo preciso: dare concretezza agli annunci fatti a settembre durante il Forum per la cooperazione sino-africana, e continuare a definire il piano strategico presentato da Xi Jinping. Non a caso tra i paesi scelti dal ministro figura la Repubblica del Congo, che tra tre anni ospiterà il prossimo vertice. Le altre tappe rispecchiano il tentativo di alternare paesi grandi e piccoli, nonché di diversificare le mete rispetto a quelle degli anni precedenti: Namibia, Ciad e Nigeria. Due elementi consolidano tendenze in corso da diverso tempo: la predilezione per l’Africa occidentale, contestualmente al ritiro francese dalla regione. E l’interesse per le materie prime, di cui la Namibia è particolarmente ricca.
Detto ciò, non è facilissimo capire come Pechino pianifica l’itinerario africano di inizio anno. Mentre infatti è comprensibile che Eswatini – l’unico paese africano a intrattenere relazioni ufficiali con Taiwan – non sia mai stato incluso, lo è meno la decisione di snobbare la Somalia, che ha sempre difeso la Cina in sede Onu su temi scivolosi, come il Xinjiang e Hong Kong. La Nigeria ha ricevuto ben sette visite, a massimo cinque anni di distanza l’una dall’altra. Ci sta, essendo l’economia africana in più rapida crescita. Ma allora perché l’Angola solo tre? Considerata il paese simbolo del “modello cinese” in Africa La verità è che non c’è una logica davvero chiara dietro la scelta delle tappe. O forse lo ha detto Wang Yi, incontrando il presidente del Ciad Mahamat Idriss Deby Itno: Pechino considera “uguali” tutti i paesi, “grandi o piccoli, ricchi o poveri, forti o deboli”.
Non deve quindi stupire se la visita di Wang Yi, perlopiù simbolica, si è conclusa con molta retorica Sud-Sud e pochi annunci sostanziosi. Quei pochi tuttavia hanno il loro peso. Oltre all’impegno a espandere l‘industria nucleare della Namibia (con un valore di 5,1 miliardi di dollari la joint venture Swakop Uranium è il più massiccio investimento cinese in tutta l’Africa), merita attenzione il prestito da 255 milioni di dollari per la ferrovia Kaduna-Kano, in Nigeria. Un progetto complessivamente da 973 milioni di dollari, rimasto congelato per molti anni proprio a causa delle perplessità di Pechino. L’intesa conferma la rinnovata disponibilità cinese a finanziare le infrastrutture di trasporto dopo un periodo di prolungato disimpegno a causa del crescente indebitamento dei paesi partner. Preoccupazione che sta spingendo le autorità della Repubblica popolare a sponsorizzare l’emissione di Panda Bond (obbligazione denominata in renminbi emessa da un emittente con sede al di fuori della Repubblica popolare cinese) oltre agli accordi di swap (accordo tra due banche centrali per lo scambio delle rispettive valute).
Non solo. Sebbene di importo più basso, spicca il miliardo di yuan (136mila dollari) in aiuti militari promesso ad Abuja, in Nigeria, per addestrare 6.000 soldati e 1.000 ufficiali di polizia in tutto il continente. Quello della sicurezza è un aspetto sempre più importante nei rapporti con l’Africa, tanto che figura ampiamente anche nel piano d’azione del FOCAC, piattaforma nata inizialmente per dare slancio alle sinergie economiche. Come noto la Cina, attenendosi allo storico principio della non ingerenza negli affari altrui, preferisce fornire ai governi locali gli strumenti necessari piuttosto che intervenire direttamente con gli scarponi sul terreno. È il modo più semplice per difendere i propri interessi economici e geostrategici nel continente. Motivo che spiega la scelta abbastanza inattesa di includere il Ciad nel tour di Wang Yi. Un paese del Sahel, regione dove la Cina è sempre più attiva. Va detto che c’è anche un significato politico: i rapporti militari permettono a Pechino di consolidare le relazioni con l’élite africana, che in diversi casi è la stessa dai tempi dei movimenti di liberazione dal colonialismo. Pensiamo al presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, che in gioventù studiò proprio presso l’accademia militare di Nanchino.
Anche in questo frangente la postura cinese si discosta nettamente dall’interventismo dell’Occidente nel continente, in un primo momento accolto con favore dalle capitali africane. Molto meno in seguito all’esplosione di nuove insurrezioni jihadiste e colpi di stato in Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso. Proprio mentre il ministro cinese si trovava in Africa, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha rilasciato un discorso molto controverso in cui ha accusato le ex colonie africane di scarsa gratitudine per il supporto militare fornito da Parigi. Aggiungendo che nessuna “sarebbe oggi in un paese sovrano se l’esercito francese non fosse stato schierato in questa regione”. La dissonanza tra il messaggio dell’Eliseo e quello di Zhongnanhai, il Cremlino cinese, non potrebbe essere più stridente.
Litio, lingotti d’oro e petrolio
Come dicevamo, il debutto cinese nel settore della sicurezza è collegato strettamente alla necessità di proteggere i propri interessi, soprattutto nel Sahel. Questi interessi sono sempre più concentrati nel comparto minerario e, di riflesso, nell’industria verde. A dicembre il gigante cinese del mining Ganfeng ha annunciato la prima fase della sua miniera di litio di Goulamina, in Mali, che ha una capacità annuale pianificata fino a 1 milione di tonnellate nella seconda fase. Il presidente maliano Assimi Goita ha definito la cooperazione con la Cina una partnership “strategica e sincera”.
Il 5 gennaio le autorità della Repubblica democratica del Congo hanno divulgato il sequestro di 12 lingotti d’oro e 800mila euro in contanti da tre cittadini cinesi. Dopo una perquisizione del veicolo in cui viaggiavano, le autorità sono arrivate mazzette di banconote da 100 euro in contanti, nonché 12 lingotti d’oro. Il bottino era stato meticolosamente nascosto sotto i sedili e nelle portiere dell’auto. “È un decimo di quello che hanno già speso”, ha detto in un comunicato stampa Jean Jacques Purusi, direttore della provincia interessata. Secondo la stessa fonte, i tre cittadini cinesi sono stati arrestati nel corso di un’operazione segreta della polizia, due settimane dopo l’arresto (e la deportazione) di altri 17 cittadini cinesi nella zona mineraria di Mubimbi a Walungu, nella provincia del Sud Kivu.
A seguito della notizia diverse centinaia di persone hanno manifestato per protestare contro l’attività mineraria illegale nell’est del paese. “I minerali della provincia del Sud Kivu dovrebbero servire allo sviluppo e al benessere delle comunità”, recita uno striscione esposto durante la manifestazione. L’ambasciata di Pechino non ha rilasciato dichiarazioni sul caso. Un silenzio motivato dalla delicatezza del problema: non è un mistero infatti che i criminali agiscano con il placet dei potenti di Kinshasa. D’altro canto, le attività illecite dei connazionali non sembrano aver scoraggiato le aziende cinesi intenzionate a mettere le mani sulle risorse congolesi.
Solo pochi giorni fa, Zijin Mining Group Co. ha annunciato che nel primo trimestre del 2026 comincerà a produrre litio in una miniera della Repubblica democratica del Congo, al momento ancora rivendicata dall’azienda australiana AVZ Minerals Ltd. e che è oggetto di un procedimento arbitrale. Una volta ultimato, sarà il primo impianto per l’estrazione di litio operativo in Congo, il secondo paese produttore di rame al mondo e il primo per risorse di cobalto.
Il protagonismo cinese nel mining è però una strada a doppio senso. Alla fine della fi(li)era anche l’Africa ne trae beneficio. The China Global South Project ha raccontato una bella storia: quella di Joe Gakuru, ingegnere elettrico che ha trasformato Qtron Industries da una piccola azienda specializzata nel riciclaggio di rifiuti elettronici in un leader nella mobilità sostenibile. In Kenya, i prezzi ancora elevati rendono l’acquisto dei veicoli elettrici cinesi proibitivi per molti. Tuttavia, imprenditori innovativi, come Gakuru, stanno sviluppando soluzioni alternative per rendere più accessibili le nuove tecnologie. Incorporando componenti cinesi (batterie, connettori ad alta tensione e fusibili), Qtron Industries riesce a convertire vecchie auto in VE a basso costo più economici.
Mentre la Cina guarda alle rinnovabili, nell’immediato gli idrocarburi restano l’ancora di salvezza. A questo proposito le ultime notizie che arrivano dall’Africa non sono buone: circa il 90 percento dei pozzi petroliferi nel Darfur orientale, in Sudan, è stato completamente sabotato e vandalizzato da ignoti che hanno rubato rame e cavi elettrici per poi dare alle fiamme alcuni pozzi. 23 dei 36 pozzi operativi erano gestiti dalle società cinesi Petro-Engine e Sharf.
La proiezione africana dell’esercito cinese
Se è vero che Pechino preferisce delegare il mantenimento della sicurezza ai partner africani, è altrettanto innegabile che l’esercito cinese (PLA) ha molto rafforzato la propria presenza nel continente. Lo dimostra l’operazione “Peace Unity-2024“, come sono formalmente note le esercitazioni militari di due settimane condotte congiuntamente con Tanzania e Mozambico tra luglio e agosto 2024. Il dispiegamento cinese ha coinvolto un battaglione (circa 1.000 truppe) che ha condotto un addestramento via terra e via mare comprensivo di pattugliamenti marittimi, ricerca e soccorso nelle emergenze ed esercitazioni a fuoco vivo. Complessivamente sono state utilizzate circa una ventina di diversi tipi di armi ed equipaggiamento, tra cui armi leggere, artiglieria pesante, micro droni nonché vari veicoli da ricognizione e da combattimento. Ma la vera novità è che per la prima volta le truppe cinesi sono state trasportate direttamente dalla Cina continentale impiegando veicoli di trasporto, come l’aereo da trasporto strategico Y-20 e la Yuzhao, la classe di navi d’assalto anfibie più grande in dotazione del PLA. Durante le esercitazioni precedenti, le truppe mobilitate provenivano dalla base militare di Gibuti o da pattuglie antipirateria. Le esercitazioni in Tanzania mostrano una capacità di dispiegamento molto più estesa rispetto ad analoghe operazioni condotte in Bielorussia, che hanno richiesto le stesse capacità strategiche di trasporto aereo e marittimo previste ma su distanza più ravvicinata.
Le sinergie militari a Gibuti e in Tanzania attestano un comprensibile interesse per l’Africa orientale, sponda strategica per i passaggi dal mar Rosso, così come per una possibile proiezione verso il Mediterraneo. In realtà, è l’Africa occidentale, e la costa atlantica, a ospitare il numero più elevato di progetti portuali cinesi: ben 33 rispetto ai cinque nell’Africa meridionale, ai quattro nell’Africa settentrionale e ai 17 distribuiti tra Africa orientale e Corno d’Africa.
I droni cinesi di Khalifa Haftar
Droni in cambio di petrolio. È l’accordo segreto che Pechino avrebbe cercato di stringere con il generale libico Khalifa Haftar, tra il 2018 e il 2021, secondo un’indagine canadese ancora in corso e ripresa dal Telegraph. In tutto la Cina avrebbe cercato di spedire in Libia droni armati per un valore di 1 miliardo di dollari, utilizzando società fittizie con sede nel Regno Unito, Egitto e Tunisia, per aggirare l’embargo internazionale sulle armi. Complice il Covid, che avrebbe permesso di spacciare il carico per aiuti sanitari. ll governo di Tobruk avrebbe ripagato il favore in greggio a prezzo scontato. Così facendo, spiega il quotidiano britannico, Pechino “sperava di velocizzare la fine della guerra civile, acquisendo influenza e un punto d’appoggio nel futuro commercio con il paese nordafricano ricco di energia”. Il governo cinese non figura mai esplicitamente nel complotto: l’operazione sarebbe avvenuta tramite due aziende statali della difesa, anche se nel carteggio elettronico a un certo punto compare il nome di un funzionario del ministero degli Esteri. Persino Xi Jinping pare sia indirettamente coinvolto tramite la China Raybo International, un’azienda direttamente legata alla sua famiglia che avrebbe beneficiato dall’accordo. Non è la prima volta che emergono indiscrezioni sulla vendita illecita di droni in Libia. Altri due casi simili, oggetto di indagine in Italia e Spagna, sembrano suggerire l’esistenza di uno scambio consolidato con Tobruk.
Fatta eccezione per le ricorrenti (e mai confermate) previsioni sull’apertura di una nuova base navale, le relazioni militari tra la Cina e i paesi africani hanno ancora una visibilità relativamente ridotta sulla stampa internazionale. The China Global South Project si è interrogato sul perché. Il motivo principale, spiega un esperto africano, andrebbe ricercato nella visione semplicistica e stigmatizzata che l’occidente ha ancora del continente, ridotto da una parte a epicentro delle crisi umanitarie, dall’altra a fonte di risorse utilizzabili per il proprio sviluppo tecnologico.
A proposito di percezioni viziate, un tema molto sentito riguarda le difficoltà incontrate dalle aziende cinesi che stanno cercando di espandere la loro presenza in Africa, ma si trovano ad affrontare difficoltà significative. Uno degli ostacoli più insidiosi è rappresentato dalle barriere linguistiche e culturali che ostacolano la comunicazione efficace con le comunità e gli stakeholders locali. Cao Fengze, ingegnere di professione e influencer nel tempo libero, ha condiviso su Beijing Cultural Review la sua esperienza nel cercare di adattare le pratiche aziendali cinesi al contesto africano. Il primo consiglio di Cao consiste nell’utilizzare interpreti locali per facilitare la comunicazione, ridurre le tensioni e promuovere un ambiente di lavoro più collaborativo. Provvedimento che i dirigenti delle aziende cinesi tendono a rifiutare percependo l’assunzione di mediatori africani come un riconoscimento del proprio fallimento. Questa resistenza, spiega Cao, impedisce una comunicazione aperta e accessibile, limitando le possibilità di creare legami con i dipendenti locali. Alcuni dirigenti cinesi etichettano gli africani come “pigri” o “inaffidabili” senza considerare le incomprensioni culturali che influenzano il loro comportamento.
A cura di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.